Rustan Söderling, Eternal September, 2017, Installazione video a quattro canali. Durata 18 min 11 sec. Dimensioni variabili (dettaglio).

Risky Attachments

Risky Attachments

Andreas Ervik, Lara Joy Evans, Lauren Gault, Thomas Hämén, Jocelyn McGregor, Plasticity, Rustan Söderling, Ittah Yoda

A cura di Like A Little Disaster

16 Dicembre 2017 / 18 Febbraio 2018, @Foothold, Polignano a Mare

Like A Little Disaster è orgogliosa di presentare “Risky_Attachements/The_Guidebook”, la pubblicazione analogica e digitale che coinvolge gli interventi e i contributi di tutti gli artisti presenti nella mostra, L.A.L.D., Christina Gigliotti, Penny Rafferty, Sebastian Rozemberg e Ferdinando Boero.

GMO / Chikungunya / PFAS / Wannacry / Prione-ESB / Scorie radioattive / Criogenia umana / Agricoltura idroponica / Cucina molecolare / Embrioni congelati / Sistemi aperti / Surriscaldamento globale / Cambiamento climatico / Buco nell’ozono / Migrazioni transglobali / Deforestazioni / Pioggia acida / Dispositivi sensorizzati / Database / Riserve naturali / Sintetizzatori di geni / Internet / Sophia / Glass beach / Renaissance Technologies / Xylella fastidiosa / Chirurgia robotica / Maglia neurale / Oculus rift / Particolato / Detriti spaziali / Psicotropi / Cellule staminali

Come classificare questi strani oggetti?
Sono prodotti dalla natura o dalla società? Sono problemi morali o scientifici? Sono questioni tecnologiche o politiche?
Questi strani oggetti appartengono alla natura o alla cultura?
Dove possono essere collocati questi ibridi?
Sono umani?
Sono umani perché il prodotto del nostro lavoro?
Sono naturali?
Sono naturali perché non sono il risultato della nostra attività?
Sono locali o globali?

La realtà esterna non si presenta più con il volto di una natura indifferente, e noi non abbiamo più a che fare con semplici oggetti naturali, ben definiti e chiusi in se stessi, gli oggetti “calvi” e senza rischio. Oggi abbiamo sempre più a che fare con oggetti “chiomati”, “arruffati”, con “attaccamenti a rischio”, quasi-oggetti, fatti di molteplici connessioni tentacolari mai del tutto chiuse, in grado di mettere in moto delle conseguenze inattese anche a lungo termine, e per questo tanto più imprevedibili e incontrollabili. Oggetti tali da non potersi più dare semplicemente in opposizione al soggetto umano, ma tra i quali l’uomo stesso è coinvolto e con il quale condividono lo stesso destino.
Gli oggetti che ci circondano sono ibridi riottosi ad ogni classificazione, nodi di una rete che lega in una catena ininterrotta fattori molteplici e distanti, e che rischiano di far saltare tutti gli ordinamenti, tutti i programmi, tutti gli effetti. Assistiamo al proliferare di queste chimere che non è più possibile relegare al solo mondo naturale; il loro interagire finisce per mettere in discussione la soggettivazione, l’oggettivazione e l’assoggettamento, la classificazione degli esseri e la gerarchia degli attori e dei valori.

“Una causa infinitesimale comincia a produrre grandi effetti; un attore insignificante diventa centrale; un enorme cataclisma svanisce come per incanto; un prodotto-miracolo ha improvvisamente conseguenze spaventevoli; un essere mostruoso si trasforma in domestico senza alcuno sforzo. Con i quasi-oggetti si è sempre presi in contropiede, talvolta sorpresi dalla rocustezza degli ecosistemi, talaltra dalla loro fragilità”.

– Sputiamo su Hegel.
– Sputiamo anche su Kant!

È stato Kant a consolidare l’ingiustificata divisione tra umani e nonumani, ponendo l’uomo al centro della filosofia e, al tempo stesso, riducendo il resto del mondo a un insieme di oggetti inconoscibili. Le cose in sé diventano inaccessibili mentre, simmetricamente, il soggetto trascendentale si allontana infinitamente dal mondo. Non importa quali variazioni verrano fatte nella storia della filosofia a questo tema, il divario tra uomo e mondo rimarrà sempre privilegiato rispetto a quello tra albero e luna o fuoco e grano.

Forme pure a priori?

I – PURIFICAZIONE.
Il pensiero contemporaneo continua a sezionare il mondo in due regni completamente opposti. Da un lato abbiamo gli umani e le loro culture, dall’altra parte abbiamo la natura e i nonumani. Da un lato la filogenesi e dall’altro l’ontogenesi. Da un lato il patrimonio genetico, dall’altra le alterazioni tecnologiche.

E invece no, non ci sono due zone mutuamente isolate chiamate “natura” e “cultura”: ci sono solo attanti, e non è possibile separare il reame naturale da quello culturale – non perché siano irrimediabilmente intrecciati, ma piuttosto perché la dicotomia tra natura e cultura è infondata. Non c’è null’altro che una pletora di attanti, nessuno dei quali intrinsecamente naturale o culturale.

“Non esistono idiomi puri, siamo tutti mediatori, traduttori.”

II – MESCOLANZA.
Questi ibridi sono un incubo per qualsiasi tentativo di dividere il mondo in due distretti purificati. Per questo motivo, la posizione modernista li travisa deliberatamente come mescolanza di forme pure.

Ma una tale mescolanza è impossibile se le due forme pure non esistono affatto. Infatti, il nostro mondo non contiene altro che ibridi, anche se la parola «ibrido» è ingannevole con le sue false sfumature di una mescolanza di due ingredienti puri. Se li chiamiamo quasi-oggetti, il lavoro svolto dal “quasi” è quello di rimuovere ogni traccia di purezza iniziale o ideale.

Ci sono soltanto attanti: costruiti attraverso le numerose prove di forza con altri, e tutti resistono parzialmente a qualsiasi tentativo di disassemblarli.

-ATTORI-ATTANTI-TRATTINI-AGENTI-

Seguendo le tracce di un quasi-oggetto, esso ci pare ora cosa, ora racconto, ora legame sociale, senza mai ridursi a un semplice ente. Tutto ciò che conta sono gli attanti e le reti che li collegano.

Gli oggetti sono soggetti, attori sociali che, alla stregua di noi attori sociali umani, compiono azioni, svolgono compiti, in breve inter-agiscono fra di loro e fra loro e noi. Il quasi-oggetto è dapprima nient’altro che un segno, un token, una traccia, che permane, lasciata dallo spostamento di un corpo che prima arriva, produce, compie atti e poi si ritira: è un contatto olistico che resta e persiste come traccia della presenza dell’agire di un corpo.

Rispetto al sistema sociale gli oggetti non “simbolizzano”, non “riflettono”, non “reificano” le relazioni tra soggetti, ma contribuiscono a formarle. Gli oggetti, considerati come agenti, funzionano come mediatori incaricati non tanto di veicolare messaggi, ma di costituire, riscrivere, modificare il senso.

L’intermediario tradizionale non era che un mezzo per un fine, mentre il mediatore è mezzo e fine insieme.

Ciò che troviamo sempre e dovunque sono semplicemente reti di attori. L’attore non è del tutto un oggetto e non è del tutto un soggetto; o piuttosto può comportarsi come entrambi, a seconda di come lo vediamo.

Il quasi-oggetto è una proprietà relazionale che non possiede nessuna sostanzialità; esso è una realtà distinta e contrapposta al soggetto, ma una funzione relazionale che permette di costruire connessioni reali o virtuali tra soggetti immergendoli in una costruzione collettiva e sociale.

Quando il quasi-oggetto crea una comunità, questa comunità diventa reale. Noi uomini passiamo il tempo a trasformare il virtuale in reale.

– Che cosa è una moneta?
È un quasi-oggetto. Si può trasformare in qualsiasi cosa. È un equivalente generale. Quindi non c’è oggi nulla di più reale della moneta, che all’inizio era un quasi-oggetto.

Quasi-oggetto-quasi-soggetto

Il quasi-oggetto non è né un oggetto né un soggetto, è una relazione.

I quasi-oggetti sono fenomeni rappresentabili solo come interazione fra soggetto osservante e oggetto osservato. Sono metà oggetto e metà soggetto, non potendo essere definiti da nessuna di queste due polarità; essi attraversano e costruiscono i gruppi sociali, mediando e trasformando le identità personali e collettive e le relazioni all’interno dei network, permettendo così di passare dall’ottusità dell’io alla fluidità del noi.

– Ma davvero esiste un “Io”, un “Noi”?

Noi danziamo insieme agli elementi, siamo fatti di miliardi e trilioni di piccoli componenti dotati ciascuno di intelligenza propria, che si tratti di una cellula o di qualcosa di ancora più piccolo. Quindi non esiste in realtà nemmeno un “io” o un “noi”. Ciò che esiste sono solo attaccamenti a rischio, equilibri provvisori e fragili tra cose diverse. E quel “noi” ha una molteplicità in sé e agisce costantemente con tutti gli altri artefici del mondo, animati e inanimati.

Il pronome personale è una spugna, è una palla!

 «L’“io” mi appartiene, poi è tuo, poi suo, dell’altro, di ciascuno. È un gettone di presenza indefinitamente scambiato»; «Il “tu” è mio, in seguito lo prendi tu; se l’altro lo coglie, mi rivolgo a lui, ognuno al suo turno». L’ego non è un punto fisso, una struttura invariante, ma un essere di circolazione. L’unico pronome invariante è il noi, che «appartiene in proprio a tutti ed in comune a ciascuno, designa la rete multicentrata».

  

– M.E.S.H. –

Il potere politico agisce su di noi ed anche la retorica del testo agisce su di noi, ma allo stesso modo lo fanno i muri di cemento, gli iceberg, campi di tabacco e i serpenti velenosi.

– Cosa finisce?
– Finisce la natura.
Ciò che comincia è invece la maglia, fatta di attaccamenti a rischio, di entità liquide, viscose, decentrate, graduali e intersoggettive. Ogni ente è definibile solo in relazione (pur non essendo la relazione stessa).

La maglia è l’insieme di tutte le forme di vita, ma anche l’insieme di tutte le forme di vita che sono morte e hanno concimato e modificato la Terra, la sua struttura e la sua storia. Tutto è vita, anche ciò che non sembrerebbe esserlo: il ferro è un sottoprodotto del metabolismo batterico e così anche l’ossigeno. Le montagne possono essere fatte di conchiglie e batteri fossili e la cosa decisiva è che la maglia non ha nessun elemento più importante o essenziale degli altri.

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And if I left off dreaming about you?, instllation view, Gioia Di Girolamo, Motoko Ishibashi.

And if I left off dreaming about you?

And if I left off dreaming about you?

Stine Deja, Gioia Di Girolamo, Motoko Ishibashi, Lito Kattou, Botond Keresztesi, Maurizio Vicerè – Vice

A cura di Like A Little Disaster

18 Giugno / 18 Agosto 2017, @Foothold, Polignano a Mare

 photo credits: Ivan Divanto, Like A Little Disaster

– Che cos’è la realtà? 
– In che senso io sono presente o assente? 
– Un’ambivalente contrapposizione tra quello che io conosco e quello che esiste indipendentemente dalla mia conoscenza. In altre parole la realtà esiste in sé al di là della mia mente, del mio sguardo e della mia esperienza o è ontologicamente inesistente e quindi è un’illusione, o meglio, un sogno?

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La realtà ha bisogno di alimentarsi di finzioni perché all’essere umano la realtà del mondo non basta mai. Basta ancora meno nel panorama tecnologico, visivo e iconografico nel quale è oggi immerso, uno spazio nel quale la finzione ha acquisito una straordinaria capacità di diventare realtà e cancellare, in un continuo gioco degli specchi, gli originali di cui è rappresentazione. 

L’immagine, in quanto riproduzione e rappresentazione del reale, conferma la sua insita e insidiosa falsità. 

Lo sguardo, nella sua interpretazione del reale, è sempre più mediato tecnologicamente e come tale anch’esso falso, ingannatore e produttore di nuovi simulacri. 

L’iperrealtà è tanto incerta quanto il sogno, che è sognato come è sognato colui che lo sogna, e così fino all’infinito. 

Il carattere relazionalmente ipertrofico che sottende le reti di comunicazione nel nuovo spazio antropologico dell’intelligenza collettiva esalta soggettivazioni che si costituiscono come ibridazione di reale e apparente, in cui si manifesta il collasso dell’immaginario sul reale. Una migrazione di tecnologie dalla fantasia all’effettuazione, con conseguenze che riguardano le dimensioni di scorrimento e di consistenza della coesistenza/esperienza quotidiana. 

Ciò che fino a ieri ha abitato la dimensione psichica, emotiva e privata dell’uomo, la fantasticheria, il sogno, esce dalla sua dimensione segreta, si fa direttamente comunicabile, può essere condiviso con gli altri, diventare esperienza comune, al di là dello strumento linguistico. Tutto può essere oggettivato, rappresentato, fatto vivere, il nostro corpo tecnologizzato si porta dietro tutto un mondo, un ambiente in cui prosperare, esprimersi, crescere e rafforzarsi. E se questo è possibile, s’intende che il dogma dell’unicità del reale vacilla: la frantumazione dell’io porta con se la pluralità dei mondi. Gli universi paralleli sono usciti dai libri di fantascienza o dalle ipotesi cosmologiche più ardite dei fisici quantistici per diventare i mondi della porta accanto, da cui si può entrare ed uscire con estrema facilità.

Il nostro comportamento sociale si muove in un universo narrativo dove la carne non necessita più di redenzione perché già fattasi virtuale, corpo di luce. In questa prospettiva, l’universo che ci circonda diviene il corpus hermeticum di nuove mitologie fanta-tecnologiche e para-spirituali, che descrivono nuovi modelli collettivi di rappresentazione e di identificazione, non solo in termini psicologici ma anche in termini di appercezione sensoriale. 

Le nuove tecnologie abituano a vivere la propria corporeità in una nuova forma immateriale, psicologica, in qualche modo analoga alla forma animica e miracolosa attribuita tradizionalmente ai santi, agli asceti e agli sciamani dell’antichità; in questo senso, la tecnologia consente di vivere una inquietante sottospecie di “viaggio nello spirito”, che nella sua forma originale è caratterizzato – secondo le antiche tradizioni – proprio dalla coincidenza onirica, tra soggetto ed oggetto della conoscenza, e dalla immersione in una specie di identità trascendentale con il mondo. Ecco allora che l’elettronica – che non ci ha permesso di arrivare su Marte – ci permette però di vivere come collettività questo sogno, dando ad esso un corpo meta-fisico (o pseudo-spirituale) totalmente credibile, coinvolgente, immersivo, interattivo.

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– Rimarrebbe da capire come mai esista oggi una diffusa, e sempre più ossessiva, smania per i mondi evanescenti, una voglia febbrile di proiettarsi almeno illusoriamente, nel rarefatto mondo delle non-cose. Un mondo questo che, nell’odierno immaginario collettivo, assume  la forma della fantasmagorizzazione. Perché sebbene le cose in quel mondo trasognato perdano la materialità, le non-cose risultanti sono sempre vissute, tutto sommato come simulacri di cose. O meglio: come se si trattasse di corpi senza corpo. Fantasmi di corpi. Fantasmi di cose.

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So Natural! curated by Like A Little Disaster, installation view.

So Natural!

So Natural!

Gioia Di Girolamo, Andreas Ervik, Adham Faramawy, Maria Gondek, Julie Grosche, Hannah Regel, David Stjernholm, Struan Teague

A cura di Like A Little Disaster

12 Marzo / 18 Aprile 2017, @Foothold, Polignano a Mare

 photo credits: Ivan Divanto, Alfredo Maiullari, Like A Little Disaster

Il pensiero contemporaneo è dominato da una contraddizione irrisolta: quella che oppone il concetto di cultura a quello di natura, e quindi relativismo a universalismo. In realtà, come già osservava Barthes, “dire che la cultura si contrappone alla natura è ambiguo, perché non sappiamo dove si collocano esattamente i confini dell’una e dell’altra”. Una con-fusione causata dall’impossibilità di riconoscere i segni identitari di questi “oggetti paradossali”: senza contorni, senza termini antitetici, senza residui.

Eppure l’essere umano stabilisce una relazione con tutto ciò che gli è estraneo; i rapporti di mutua ibridazione tra uomo, tecnica e ambiente di riferimento sono stati spesso ignorati in virtù di una visione antropocentrica che fonda tutto sulla superiorità dell’essere pensante, in quanto unica entità a possedere una coscienza del suo pensiero e del suo essere nel mondo. Tuttavia esistono vari livelli del comprendersi e dell’esserci, alcuni dei quali non appartenenti in via esclusiva al genere umano. Creatività, cura, abilità comunicativa, senso di appartenenza, orientamento, amore, difesa del territorio, nomadismo, ricorso alle abitudini, memoria, senso del gruppo, senso della gerarchia, linguaggio e simbolismo sono presenti in altri mammiferi (e non è escluso che le piante siano dotate di alcune delle attribuzioni citate, così come sono note le proprietà mnemoniche di un minerale come l’acqua, il carattere complesso, neurologico, sociale e culturale del canto degli uccelli, o i giochi di seduzione e imitazione che si svolgono tra fiori e animali). Allora le consolidate categorie che separano l’uomo da tutto il resto non sono sufficienti a mantenere alta la barriera: la relazione tra umano e non-umano diventa fluida, muovendosi all’interno di un sistema circolare di reciprocità. La cultura si prospetta così come una possibilità zoologica, di cui l’uomo si è impadronito e avvalso, ma che è preesistente all’uomo stesso. Sotto questo profilo la cultura non può più essere considerata come termine antitetico rispetto alla natura, bensì come una sua dimensione interna di per sé indipendente dall’uomo, che perciò – al di là di ogni autoproclamazione di esclusività antropologica – riconduce inesorabilmente l’uomo all’ambito della natura.
Natura e cultura sono nebulose di senso. Il che non significa che i contenuti a cui si riferiscono e gli effetti che essi producono non abbiano una loro esistenza. Significa, invece, che una scossa tellurica o una mostra d’arte – che pure avvengono in questo mondo e sono “naturalmente” osservabili – si trovano a essere classificati in categorie culturalmente elaborate, le quali sono a loro volta risultati di scelte intellettuali, anche se inconsapevoli o sepolte nel passato culturale, nelle tradizioni linguistiche e concettuali.

Il riduzionismo strumentale trova terreno fertile nella melma biocapitalista in cui viviamo: esso si fonda sulla nozione di “eccezionalismo umano”, etnocentrico e specista e, da questi, alla costruzione di un sistema fondato sull’opposizione binaria tra natura e cultura, natura e storia, umano e macchina, maschile e femminile, identità e alterità, giorno e notte, mente e corpo, ragione e sentimento.  In questo doppio gioco uno dei soggetti della coppia cognitiva è sempre dominato dalla sua altra metà repressa e sottomessa.

“So natural!” aspira, invece, a mettere in luce la divergenza dei possibili significati assenti che sfuggono ad ogni logica dualistica: le opposizioni binarie sono considerate come punti di partenza per rimuovere e riaffermare entrambi i termini dell’opposizione all’interno di una relazione non gerarchica con la differenza. Il progetto si propone come uno spazio destinato all’armonia che è nell’incontro degli opposti, come un dispositivo attraverso il quale sperimentare una concezione dell’individuo e del suo modo di porsi nei confronti del reale non più contraddistinta da una logica escludente, ma che al contrario tenda ad includere tutte le modalità espressive e gli ambiti d’azione.

Nessuna opposizione tra senso di responsabilità e idea di gioco / ambiente in cui cresciamo e codice genetico / condivisione con gli altri e il senso di sé / pubblico e privatoimmaginario ed economia / estetica e politica / ideologia e produzione / scienza e poesia / algoritmi e collegamenti neuronali / patrimonio genetico e alterazione tecnologica / euforia e disforia / razionalità e istinto / mente e corpo / spirito e materia / reale e virtuale / vero e falso / organico e inorganico / vita e morte. “So natural!” è un campo aperto a poetiche e pratiche assolutamente distinte attraverso il quale sperimentare una dialettica del possibile e della complessità e in cui un potente immaginario trasforma esperienze esistenziali, mitologie personali e collettive, simboli, segni, utopie e distopie, desideri e bisogni, in una materia che prende forme impreviste o coerentemente definibili, dove interno ed esterno, alto e basso assumono reciprocamente la posizione dell’altro. All’interno di questi percorsi formali e mentali interviene anche una dimensione critica nei confronti di modelli cognitivi interiorizzati, acquisiti e consolidati; critica che permette di ridefinire radicalmente le regole di qualunque sistema funzionale, al fine di usare le regole in modo diverso, ignorandone la finalità originaria. Le opere non sono qui fini o scopi di un processo di produzione, ma mezzi, o strumenti che potenziano la facoltà di immaginare uno spazio di co-evoluzione multiforme, attraverso il quale ricercare la cultura nella natura  e viceversa, il contingente nel permanente, l’identità nella differenza e in cui sperimentare nuove alleanze e percorsi secondari che forse non porteranno sempre in luoghi lontani ma spostano il nostro punto di vista, permettendoci di considerare altre possibilità.
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Antonio Trotta, Paquete especial, 1966-2016, acciaio, plexiglass, 330x145x110 cm

Antonio Trotta. Soltanto il nulla è senza luce

Antonio Trotta. Soltanto il nulla è senza luce

Antonio Trotta

A cura di Like A Little Disaster

1 Ottobre / 15 Novembre 2016, @Foothold, Polignano a Mare

Like A Little Disaster è orgogliosa di presentare “Soltanto il nulla è senza luce”, una mostra personale dell’artista italo-argentino Antonio Trotta, uno dei maggiori esponenti dell’arte internazionale degli ultimi cinquant’anni. Trotta è un artista poliedrico che, fin dalla seconda metà degli anni sessanta, ha ricercato, immaginato, costruito un linguaggio coerente, anticipatore, spesso solitario ma sempre libero da condizionamenti esterni. Un linguaggio che appartiene a un universo mentale che non si lascia imprigionare da categorie chiuse o vincolanti. Il suo linguaggio ha dilatato i confini di innumerevoli campi di ricerca; performance, video, parole, fotografia, installazioni ambientali, scultura. La sua pratica ha sfiorato, senza mai lasciarsi irretire, molte correnti e attitudini dell’arte contemporanea; dalle avanguardie moderniste allo spazialismo, dal concettuale al minimalismo, dal postmodernismo all’arte ambientale.
La mostra costituisce uno spunto di riflessione sul suo percorso artistico attraverso alcuni momenti topici, in particolare quelli legati al suo interesse per la luce come medium, fenomeno e concetto. Essa è intesa da Trotta come entità nella quale emerge limpidamente la potenza disvelatice del pensiero, in relazione ai caratteri di contingenza e di trascendenza connaturati all’Esserci. Luce rivelatrice che ci conduce oltre ciò che vediamo. Attraverso un ossimoro potremmo dire che, con le opere di Trotta, la luce diviene pura e “concreta” astrazione, si presenta allo stesso tempo quale medium e contenuto, unione perfetta tra presentazione e rappresentazione di sé. 

Opere in mostra:
Paquete especial (1966-2016). L’opera è stata esposta unicamente alla Galleria Castagnino di Buenos Aires nel 1967, ed è stata riprodotta per l’occasione e presentata per la prima volta in Europa. L’opera è caratterizzate da un sicuro interesse per le geometrie minimaliste e dall’utilizzo di materiali di origine industriale e edile che gli permettono di dar vita ad opere modulari perfettamente adattabili ad ogni ambiente e ad ogni tipo di installazione. Paquete especial è una scultura formata da un tubolare in alluminio che avvolge, o “impacchetta” un raggio di luce formato da un gruppo di tubi di plexiglas, materiale usato per la sua innovativa immaterialità luminosa, per il suo essere inesistenza modellabile o luce materializzata. Paquete especial è un’opera che, come scrive Jorge Glusberg, “(…) permette allo spettatore di partecipare in modo nuovo, operando da se la scelta dei messaggi che è in grado di ricevere. L’osservazione di un’opera classica riflette una totale subordinazione ad un ordine autoritario ed assoluto (che può essere identificato sia nella posizione sia negli ideali dell’artefice). La visione contemporanea introduce una forma di comunione fra pubblico ed artista che è completamente diversa da quella tradizionale. La nuova opera d’arte crea una diversa dimensione di godimento estetico; non è posta davanti al pubblico, ma lo avvolge, lo costringe a partecipare, in un rapimento cosciente, ad una nuova forma di convivenza sociale e di disciplina intellettuale”. Paquete especial condivide lo spazio ed è posta in dialogo con una serie di opere più recenti dell’autore, i Sospiri (1999-2016) in cui il marmo sembra trasformarsi in foglio scosso dal vento o in cui, come ha acutamente osservato Lea Vergine, “il tradizionale viene ribaltato (…) i Sospiri simulano, fino al trompe l’oeil, il movimento, la levità; sono un gioco di prestigio, una magia, un tour de force settecentesco. (…) Trotta muta la pesantezza della materia in una miracolosa leggerezza. Ma la parodia (il mondo alla rovescia) e il paradosso (l’assurdo, l’inconcepibile) danno, in lui, risultati che, ispirati da una sorta di classicismo, paiono enigmatici, mai sondabili a fondo.”
I sospiri sono delle ”sequenze marmoree” fissate come quadri, ogni sospiro è diverso dall’altro e si distingue per il movimento e la luce che lo scultore esprime ed imprime nella materia. Pur nella loro totale autonomia estetica, sia “Paquete especial” che i “Sospiri” sono animati da una comune forza ispiratrice. In entrambe le opere la luce non si identifica con il reale ma piuttosto con una condizione mentale attraverso la quale indagare i limiti della visibilità e dell’illusione, così come la tangibilità e intangibilità di una materia che sovverte la rappresentazione spaziale delle opere. La luce mostra se stessa nel farci vedere, cioè nel rendere possibile la visione; allo stesso modo, le idee vengono intuite nel loro farci pensare, per il fatto cioè che rendono possibile il nostro pensiero. E come l’atto del vedere non è distinguibile dagli oggetti della visione, così l’atto del pensare non è distinguibile dai concetti pensati. 
Altra opera appositamente rieditata per la mostra è Schema 8: Accoppiamento (1968-2016) presentata unicamente alla 34 Biennale di Venezia del 1968. La sua ideazione e realizzazione nasce durante il periodo che Trotta sceglie di trascorre a Roma in preparazione della Biennale. Si tratta della riproduzione fotografica notturna di una galleria romana da cui si prolungano, nello spazio reale della mostra, tubi al neon che la illuminano. L’opera, come tempestivamente osservò Germano Celant, “(…) cerca di avvicinare l’osservatore e non di estraniarlo, si pone direttamente in contatto con il soggetto-fruitore coinvolgendolo spazialmente, generando un’inaspettata sensazione di perdita del limite tra reale ed irreale.” 
Da questo doppio gioco di prospettive e visioni, l’esperienza è contemporaneamente oggettiva e soggettiva, materiale ed immateriale, reale ed irreale, con l’ambiguità sufficiente affinché l’osservatore partecipa senza proporsi definizione alcuna dal punto di vista razionale o individuale. Con questa opera assistiamo, per la prima volta nell’opera di Trotta, alla sua tipica attitudine nel generare infiniti equivoci visivi in cui rende verosimile l’improbabile, all’interno di un sistema perennemente in bilico tra finzione e realtà e dove le opere si mostrano per la loro natura di simulacri. 
Con la Finestra su vetro, 1972 (light box, emulsione su vetro, 90 x 90 x 12 cm. realizzata in collaborazione con l’architetto Giorgio Tagini) Antonio Trotta crea un cortocircuito tautologico che dipende dalla coincidenza fra il materiale visualizzato (il vetro) e quello usato come supporto. La fotografia emulsionata su vetro raffigura la finestra dello studio milanese dell’artista, quando è spenta, la lampada ha l’aspetto “notturno” della finestra reale; quando è accesa, ha l’aspetto della finestra “di giorno”. Non solo l’idea precede l’azione, ma in qualche modo l’opera sembra contenere se stessa, l’oggetto reale corrisponde ad un oggetto ideale e preesistente.
Colonna con luce, 1972 (Marmo inciso, luce, 40 x 40 cm) è una delle prime esperienze di lavorazione del marmo  parte di Trotta e, anch’essa, realizzata in collaborazione con l’architetto Giorgio Tagini. Si tratta di un blocco di marmo scolpito ed illuminato internamente, acceso mostra la base di una colonna scomposta nelle sue proiezioni ortogonali, una volta spento torna ad essere semplicemente la geometria materica di un cubo di marmo. La luce attraversa le trame dell’origine e della storia, seguendo una circolarità temporale che, citando Borges, vede il passato ritornare eternamente a far parte del presente. Ancora sul concetto di luce è Lampada sferica, 1962-72/2016 (Plexiglass, luce. 40 x 40 cm.) anch’essa rieditata per la mostra. Un cubo luminoso dal quale si stacca uno spicchio anch’esso, indipendentemente, luminoso. Il fascino per il minimalismo geometrico spinge Trotta a scavare nel cubo, per vedere cosa “C’è” dentro. Dividere, sezionare la forma cubica esplorando innumerevoli intenzioni estetiche e concettuali. Il piacere estetico di vedere una luce separata, una luce divisa in due parti; la fonte luminosa che, generalmente siamo abituati ad identificare nella sua unicità emissiva, si presenta in forma di solido frazionato che può essere, mentalmente, ricongiunto.
Libro letto nel ’70, (1970, 23 x 15 x 3 cm.) è una stampa su una lastra di perspex trasparente, raffigura invece la copertina di un libro, Carme presunto di Borges, che, poiché letto e interiorizzato, diventa trasparente e illuminato, richiamando l’idea stessa della letteratura borgesiana. Tale procedimento non esclude il piacere della visione: non siamo di fronte a una pura operazione concettuale, ma a una presenza concreta, per quanto ambigua. «Il mondo e il libro si rimandano eternamente e infinitamente le loro immagini riflesse. Questo potere indefinito di riverberazione, questo scintillante e illimitato moltiplicarsi che è il labirinto della luce che peraltro non è un nulla, sarà allora tutto ciò che troveremo, vertiginosamente, in fondo al nostro desiderio di capire». 

Biografia:
Paestum, 1937 – Milano 2019. Trasferitosi in Argentina, nel 1960 è fra i promotori del gruppo SI. Inizia la sua attività espositiva al Museo de Arte Moderno e all’Istituto Torcuato Di Tella a Buenos Aires, e nel 1968 è invitato alla Biennale di Venezia a rappresentare il Padiglione Argentino. Dalla fine del 1969 fino al 1973 Trotta collabora con la Nizzoli Associati, con interventi di “progettazione totale” che coinvolgono in équipe architetti, grafici, artisti e critici, realizzando progetti d’architettura e urbanistica in Italia e all’estero (Taranto, Cremona, Siviglia, ecc.). Realizza anche alcune copertine per la rivista “L’Architettura. Cronache e Storia” diretta da Bruno Zevi. Tiene personali alla Galleria François Lambert di Milano (1970), alla Galleria Christian Stein di Torino (1971, 1977), alla Galleria Marilena Bonomo di Bari (1972), alla Galleria Maddalena Carioni di Milano (1972), alla Galleria Editalia, Qui Arte Contemporanea di Roma (1974), alla Galleria Borgogna di Milano (1976), alla Galleria Toselli (1975), allo Studio Cesare Manzo a Pescara (1983), alla Galleria Artra di Milano (1986, 1999), alla Galleria Piero Cavellini di Milano (1987), alla Galleria Cardi a Milano (1990), alla Galleria Carini di Firenze (1993), all’Istituto de Cooperacion Iberoamericana di Buenos Aires (1995), alla Galleria Omphalos di Terlizzi (1998, 2008). Partecipa a mostre collettive alla Biennale di Venezia (1976, 1978, 1990), all’ Instititute for Contemporary Art di Londra (1974), all’Internationaal Cultureen Centrum di Antwerpen (1975), al National Museum di Osaka (1979), alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma (1980), al PAC di Milano (1982, 1988, 1989), ala Biennale di Lione (1984), alla Galleria Martano di Torino (1984), alla Fondazione Europea Dragan a Milano (1986), alla Galleria Bianca Pilat di Milano e alla Galleria Oddi Baglioni di Roma (1990), alla Galleria d’Arte Moderna di Udine (1997), alla Arte Studio Invernizzi e alla Galleria Artra di Milano (2000), al Centro Cultural La Recoleta, Buenos Aires (2007), alla Galleria d’arte Moderna, Palazzo Forti , di Verona (2007), al Palazzo della Triennale di  Milano (2009), alla Fondazione Pomodoro di Milano (2010), alla Fundación PROA di Buenos Aires (1998, 2011) al Museo MAMBA di Buenos Aires (2015, 2016), alla Bocconi Art Gallery,  Università Bocconi, Milano (2015)
Nel 2007 ha inaugurato il Museo archivio Antonio Trotta a Stio. È membro dell’Accademia Nazionale di San Luca dal 2009. 

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Fabienne Hess, Madame X, 2016, stampa digitale su seta, 125x170cm

Latent surfaces

Latent surfaces

Virginia Francia, Fabienne Hess, Yuichiro Kikuma, Minhong Pyo, Tenant of Culture

A cura di Like A Little Disaster

22 Agosto / 10 Settembre 2016, @Foothold, Polignano a Mare

Come scrive Hegel, «non c’è niente di più profondo di ciò che appare in superficie». Tra l’interno e l’esterno avviene uno scambio sotterraneo e incessante, che attraverso una dialettica misteriosa, riesce a diventare evidenza.

Gli esseri umani sono un insieme di superfici differenti. Siamo “superfici” caratterizzate da relazioni, qualità, contesti e situazioni diverse; definiamo il mondo e, in esso, il nostro spazio e il nostro tempo.

Pensare la vita come superficie e non come profondità – come un’orizzonte multi direzionale, senza trascendenza; una immanenza infinita, spugnosa e connettiva.

Ci siamo arrestati animosamente alla superficie del mondo o siamo diventati le superfici che abbiamo immaginato?

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Mikko Kuorinki, Hit me in the nose so I can become someone else, 2016, maionese, tubo di plastica, clip di fissaggio

Seminal bricolage (first attempt)

Seminal bricolage (first attempt)

Agnes Calf, Dorota Gaweda & Egle Kulbokaite, Mikko Kuorinki, Erik Larsson, Nicola Lorini, Martina Gold, Tabita Rezaire, Freddy Tuppen

A cura di Like A Little Disaster

10 Luglio / 8 Agosto 2016, @Foothold, Polignano a Mare

Nel saggio “Il pensiero selvaggio” Claude Lévi-Strauss usa il termine bricolage in opposizione al metodo analitico del pensiero occidentale, per indicare una pratica associativa del concreto, sperimentata da numerose società non-occidentali, che inventa soluzioni seguendo un percorso fatto di scoperte casuali, imprevedibili e contingenti.

Il bricolage procede seguendo un progetto multidirezionale che arrangia e riarrangia un insieme di materiali ed informazioni eterocliti di cui si scoprono le funzioni e i significati mentre vi si interagisce, in tempo reale, permettendo forme originali di conoscenza e strategie trasversali di produzione. Tale approccio presuppone un’evoluzione della relazione con il materiale di lavoro, che riveste più il gusto di una conversazione anziché quello di un monologo. 

Il bricolage ha una natura fragile e poco votata al permanere, è un veicolo elastico e sempre mutevole. Esso è contraddistinto da un’azione di revisione perenne in cui i collegamenti tra le unità non si producono in modo lineare ma creano piuttosto forme aperte al montaggio e rimontaggio, dove i vari riferimenti si richiamano tra loro, raccogliendo diversi significati che sono mescolati ad altri frammenti apparentemente non estranei.

Il bricolage è l’atto fondante di tutte le strutture naturali e culturali; dall’evoluzione delle specie alla composizione del DNA, dall’organizzazione del pensiero al mutamento della conoscenza, dalle conformazioni linguistiche al divenire dell’arte. Lo stesso cervello umano può essere considerato il frutto di un accumulo di nuove strutture sulle vecchie senza un vero e proprio processo integrato. Bricolage è dappertutto!

Il termine viene comunemente connesso ad un’improvvisata e dilettantistica attività manuale, mentre il progetto tenta esplorare le dinamiche del bricolage come esercizio mentale, linguaggio critico e riflesso sul piano pratico dell’attività mitopoietica. L’intento è quello di esaminare il bricolage e la sua capacità di introdurre nel frutto il verme della realtà, la realtà considerata illimitata e arbitraria, che costringe necessariamente ogni rappresentazione a non essere altro che una collezione di frammenti. Invece di essere costretti a seguire un’insieme di regole stabilite in anticipo, gli artisti di “Seminal Bricolage” giocano su piattaforme simulate, esplorano zone di manipolazione attiva, micromondi di transito tra soggetto e oggetto, dimensioni intermedie tra reale e virtuale. 

Il progetto non intende proporre un bricolage di materie, ma di idee incarnate nella fluidità dei materiali. Una materialità ibridata invade le opere e sfuma il suo stesso significato, coinvolgendo tutto; profumi, odori e proiezioni, tubi di plastica, maionese e tappi per le orecchie, la storia del twerk, kombucha vaporizzato e una lattina vuota in balia del vento, un sito internet, un avatar postgender e performance ipersessuali, un collage di identità, teli da bagno ricamati e paia di ciabatte.

L’interesse è rivolto in particolare ad un uso e riuso di oggetti, materiali e segni per la percezione del loro valore culturale/politico, che generano un sincretismo di riferimenti e connessioni che viene complicato dal loro essere in stretta vicinanza all’interno di una mostra. Le opere sono condizionate – sia esplicitamente che implicitamente – da complesse intersezioni di classe, etnicità, genere e sessualità; queste correlazioni rappresentano una sorta di filtro capace di riconfigurare la visione delle connessioni che stabiliamo con il mondo, con il nostro ambiente, la nostra comunità e, soprattutto, con la nostra stessa idea di alterità.

*Martina Gold ha presentato la performance interattiva “When Our Lips Speak Together” che si è ripetuta online nei giorni 11 – 18 – 25 Luglio e 1 Agosto 2016, a partire dalle ore 23.30

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Difference and Repetition

Difference and Repetition

Lia Cecchin, Kitty Clark, Andrew Gillespie, Zeinab Haji, Emily Jones, Isamit Morales, Imran Perretta, Caterina Rossato, Francesco Sollazzo, Rashid Uri, Simone Zaccagnini

A cura di Like A Little Disaster

12 Marzo / 10 Aprile 2016, @Foothold, Polignano a Mare, Italy

Difference and Repetition tenta di creare una rete di connessioni tra le ricerche di una squadra di artisti che, attraverso poetiche e linguaggi tra loro molto diversi, attuano un’operazione estetica di riposizionamento che offre nuove prospettive a ciò che esiste già. Prendere possesso, modificare e ripensare oggetti, elementi e forme della realtà fenomenica contrassegna la loro azione che, per mezzo di tali passaggi, ci permette di pensare la realtà come un gioco di differenze, mentre normalmente la pensiamo in termini di somiglianza, analogia, identità. La loro pratica indaga la possibilità di attribuire un nuovo scopo ad elementi prelevati dalla realtà, rimuoverli intenzionalmente dal dominio della percezione automatica e renderli astratti in modo da mettere quegli elementi e i loro rapporti, usi, connotazioni in mostra. 

Tramite la dissociazione di oggetti e concetti, l’artificio delle opere in mostra rende la percezione lenta e permanente, generando una strana contraddizione poiché gli stessi concetti e oggetti sono stati frammentati o separati dal loro uso meccanico al fine di poter sostenere uno sguardo più prolungato e attento. Come i paradossi, gli interventi degli artisti hanno la capacità unica di amplificare le contraddizioni, si dichiarano apertamente attraverso la loro con-fusione, in quanto è lo spettatore che deve soffermarsi e pensare a quali potrebbero essere le loro connessioni e i loro sviluppi. Ciò che confonde nelle opere in mostra è il fatto che ci presentano un commento attraverso l’attribuzione di nuove intenzioni, mentre allo stesso tempo ci offrono una diramazione di sensazioni tale da consentirci varie letture, poiché attivano una reazione a catena di riflessioni. 

Tali premesse chiamano in causa questioni complesse come il rapporto copia-originale, visto e interpretato dagli artisti come reciprocamente costitutivo tra la cosa e il suo doppio, la cosa e l’ombra. Mettendo continuamente in discussione la logica della rappresentazione, gli artisti propongono ripetizioni, doppi, oggetti e soggetti straniati, che accolgono molteplici realtà al proprio interno o si scompongono, si scollegano e diventano tutto, o qualsiasi altra cosa; alterando in infiniti modi la logica dell’originale e della copia, in modo tale da negare ogni immagine normativa del pensiero ed emanciparlo dall’asservimento ad ogni forma-immagine predefinita.