The Epiphytes Attitude #1 – Arboree volanti

The Epiphytes Attitude #1 - Arboree volanti

Simone Berti

A cura di Like A Little Disaster

Da Sabato 8 Agosto 2020 / ∞, H 24 – 7/7 @Polignano a Mare

Un mondo immaginifico, popolato da vegetali dotati di vita propria, animerà virtualmente l’intera area della città di Polignano a Mare, sabato 8 Agosto. Arboree Volanti è il nuovo progetto artistico di Simone Berti con la partecipazione di Thomas Braida, il duo artistico Genuardi Ruta e Patrick Tuttofuoco, realizzato con l’ausilio della Realtà Aumentata e fruibile attraverso il display di smartphone e tablet.

Gli alberi sono stanziali, come lo siamo stati noi in questo periodo di quarantena. Eppure le Arboree di Simone Berti si muovono e la questione parte da lontano, dal 1935: “I Centauriani possedevano strutture artificiali che fungevano senza dubbio da abitazioni […]. Le loro strutture erano «coltivate», non «costruite». Non modellavano forme in metallo: invece, conoscevano forme di protoplasma di cui avevano imparato a controllare il tasso e il modo d’accrescimento. Edifici, ponti, veicoli, persino le navi impiegate per i voli interspaziali, tutto insomma, era fatto di sostanza vivente, costretta a uno stato di quiescenza quando aveva raggiunto forma e dimensioni volute”. Così Murray Leinster, nel racconto Proxima Centauri, descrive una tecnologia aliena basata sulla manipolazione genetica dei vegetali, che oggi non suona più tanto incredibile.

Le Abroree Volanti sono sostanzialmente dei tronchi e, in qualche modo, anche entità aliene. Dalle astronavi lignee letterarie della fantascienza degli anni ‘30 alle contemporanee Arboree Volanti c’è un filo rosso che, attraversando un particolare e metafisico rapporto tra natura e architettura, unisce tutte le esperienze alla base del mondo artistico di Simone Berti, sempre in equilibrio tra i contrasti. Qui, concrete forme organiche, vegetali e arborescenti non solo si trasformano in oggetti che fluttuano a mezz’aria tra le case o sugli scogli, volteggiando a volte sopra le nostre teste, ma si manifestano impalpabili e irreali grazie alla Realtà Aumentata, attraverso una concretezza che non c’è.
Con questo progetto Simone Berti porta alle estreme conseguenze quel contrasto che sussiste tra la materia e l’astrazione: quell’equilibrio tra opposti che ha sempre caratterizzato la sua ricerca. Le Arboree si muovono, come nell’esperimento del botanico Stefano Mancuso: una pianticella di fagiolo appena germogliata si dirige direttamente verso un palo, unico oggetto presente nella stanza, per aggrapparvisi. Le piante, grazie ad un meccanismo a noi ancora sconosciuto, percepiscono l’ambiente intorno a loro. Potremmo dire, con un piccolo salto di fantasia, che sentano l’architettura e possano fare delle scelte, magari non estetiche ma sicuramente dettate dalla convenienza in termini di sopravvivenza.

Testi critici di Like A Little Disaster, Eva Fabbris, Luca Lo Pinto e una chiacchierata video con il filosofo Leonardo Caffo.

Per partecipare basta cliccare sul sito www.arboree.it, attivo da sabato 8 Agosto a partire dalle ore 07:00 e seguire le istruzioni, puntando lo smartphone sulle architetture, gli spazi urbani, naturali, centrali e periferici dell’area del comune di Polignano a Mare.

Simone Berti è nato ad Adria nel 1966, vive e lavora a Milano e ha esposto in mostre internazionali tra le quali Fare Mondi / Making Worlds, 52. Biennale d’Arte di Venezia nel 2009, su invito di Daniel Birnbaum; Italics, al MOCA – Museum of Contemporary Art, Chicago e Palazzo Grassi a Venezia, a cura di Francesco Bonami; Egofugal – 7. Istanbul Biennial diretta da Yuko Hasegawa; MACRO Museo, Roma con la sua ultima mostra personale: Simone Berti – Appunto di una generazione, 2017; Examining Pictures alla Whitechapel Art Gallery, Londra / Museum of Contemporary Art, Chicago / A. Hammer Museum – UCLA, Los Angeles; Manifesta 3, Ljubljana in Borderline syndrome: Energies of Defense; MAXXI Roma nella mostra Apocalittici Integrati; a Pechino con Young Italian artists at the turn of the millennium, Galleria Continua; Personal, mostra personale al museo GaMEC, Bergamo; Polyphonix 40, Center Georges Pompidou, Parigi; Zeitwenden / Outlook, Kunstmuseum, Bonn; SMAK Stedelijk Museum voor Actuele Kunst, Gand; El tiempo del Arte, Fundación PROA, Buenos Aires; ExIt, Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; Visioni a catena, Hara Museum, Tokyo.

Arboree Volanti
un progetto di Simone Berti
da sabato 8 agosto, a partire dalle ore 07:00
dal 22 agosto il progetto sarà visibile in tutto il mondo.

Al seguente link un elenco di dispositivi e browser compatibili con la Realtà Aumentata:
https://help.briovr.com/hc/en-us/articles/360036215534

L’evento è all’aperto e in luogo pubblico, pertanto soggetto alle norme di sicurezza attualmente vigenti nella Regione Puglia.

 

The Epiphytes Attitude
A cura di Like A Little Disaster

“Arboree Volanti” è il primo appuntamento di “The Epiphytes Attitude”, serie di progetti dilatati nel tempo e nello spazio che tentano di indagare i concetti di adattamento, sopravvivenza e sradicamento (dalla terra e dallo spazio fisico definito e chiuso).

Il progetto attiva una relazione metaforica tra pratiche artistiche e curatoriali e il sistema adattativo implementato delle piante epifite; felci, muschi, licheni, orchidee, tillandsie, alghe, bromeliacee e altri organismi sessili che non crescono sul suolo bensì dove gli umani non sono abituati a immaginarli. Questo tipo di piante vive su tronchi o rami di alberi, su altre piante, pietre, e su torri di trasmissione, pali elettrici e altri manufatti umani, alcune alghe epifite crescono perfino su diverse specie di animali.
Nel corso del loro processo evolutivo, le epifite hanno “semplicemente” deciso di spostarsi, disponendosi provvisoriamente su superfici mobili, creando associazioni improbabili che gli hanno permesso di ingannare la morte e sfuggire all’estinzione. Muschi, licheni e felci (o meglio, i loro antenati) sono state le prime piante ad evolversi, ciò significa che le epifite precedono l’evoluzione delle piante radicate nel suolo. Questa strategia richiama i rapporti istologici nomadi con la terra che precedono anche gli attaccamenti più stabili ad essa.
Le epifite sono anche chiamate piante aeree o figlie dell’aria. Sono in grado di catturare luce, acqua e sostanze nutritive da posizioni privilegiate – da un posizionamento senza fine, instabile e imprevedibile. Sono punti aleatori, ibridi riottosi ad ogni classificazione, nodi di una rete che lega in una catena ininterrotta fattori molteplici e distanti, e che rischiano di far saltare tutti gli ordinamenti, tutti i programmi, tutti gli effetti.

Una pianta epifita non influisce negativamente sul suo partner, essa è in grado di creare una relazione interspecifica non parassitaria, una relazione simbiotica che reca beneficio a entrambe parti della coppia coevolutiva. Le epifite vivono “ insieme – a” attraverso le differenze, sognano nuovi mondi per coevolvere e diventare-con-l’altro, generando ecosistemi alternativi.
Il prefisso greco Epi significa Sopra ma non in un senso di posizione gerarchica, è un “sopra” leggero come una carezza, perennemente interattivo e intercambiabile con l’alterità interspecifica e inappropriata.
Né oggetti né soggetti ma relazioni.

– Like A Little Disaster

press
Michaela Zuge-Bruton / Progetto (Lecce)

BAITBALL (01) “I’ll slip an extra shrimp on the barbie for you”

BAITBALL (01) "I'll slip an extra shrimp on the barbie for you"

Jaana-Kristiina Alakoski, ASAFO Black (Nuna Adisenu- Doe, Scrapa, Jeffrey Otoo, Samuel Kortey Baah, Denyse Gawu-Mensah, Larry Bonćhaka), ASMA, Monia Ben Hamouda, Ludovic Beillard, Vitaly Bezpalov, Andrew Birk, Enrico Boccioletti, Melanie Bonajo, Benni Bosetto, Cécilia Brueil, Ian Bruner, Marco Bruzzone, Paolo Bufalini, Pierluigi Calignano, Katharina Cameron, Costanza Candeloro, Finn Carstens, Filippo Cecconi, Guendalina Cerruti, Keren Cytter, Edoardo Ciaralli, Riccardo D’avola-Corte, Stine Deja, Zoë De Luca, Maria Adele Del Vecchio, Lila De Magalhaes, Davide Dicorato, Derek M. F. Di Fabio, Alessandro Di Pietro, Neckar Doll, Loki Dolor, Don Elektro, Clementine Edwards, Kayla Ephros, Adham Faramawy, Cleo Fariselli, Emilio Ferro, Olga Fedorova, Alessandro Fogo, Léo Fourdriner, Michele Gabriele, Paolo Gabriotti, Tommaso Gatti, Diana Gheorghiu, Naomi Gilon, Marco Giordano, Nicola Gobbetto, Serena Grassi, Julie Grosche, Jennyfer Haddad, Jan S. Hansen, Philip Hinge, Helena Hladilová, Joey Holder, Ellie Hunter, Eloise Hawser, Angelique Heidler, Lena Henke, Botond Keresztesi, Keiu Krikmann, Andrea Kvas, Virginia Lee Montgomery, Per-Oskar Leu, Lucia Leuci, Abby Lloyd, Ula Lucińska + Michał Knychaus, Lorenzo Lunghi, Tamara Macarthur, Dalia Maini, Rachele Maistrello, Viola Morini, Max Motmans, Marco Musarò, Christine Navin, Avery Noyes, Alessandro Nucci, Francesco Pacelli, Nuno Patrício, Emma Pryde, Anni Puolakka, Agostino Quaranta, John Roebas, Andrea Sala, Giulio Scalisi, Jens Settegren, Siggi Sekira, Guido Segni, Helin Shahmaran, Namsal Siedlecki, SGOMENTO (Matteo Pomati, Marco Pio Mucci), Anna Slama, Livia Spinga Mantovani, Ruben Spini, Martin Soto Climent, Mireille Tap, Filippo Tappi, Nik Timková, Philipp Timischl, Natalia Trejbalova, Marta Trektere, Urara Tsuchiya, Patrick Tuttofuoco, Eva Vallania, Daniel Van Straalen, Essi Vesala, Gaia Vincensini, Marco Vitale, Alessandro Vizzini, Gray Wielebinski, Zoë Williams, Yelena Zhelezov, Michaela Zuge-Bruton

A cura di Catbox Contemporary, Davide Da Pieve, Essenza Club, Flip Project, Ginny Project, Harlesden High Street & Twee Whistler, Like A Little Disaster, Felice Moramarco, Nights, PANE project, Progetto, Rhizome Parking Garage, Studioconcreto, The Sunroom, Ultrastudio

5 Gennaio / 15 Marzo 2020 @Palazzo San Giuseppe, Polignano a Mare

Una baitball si crea quando dei piccoli organismi (pesci, uccelli, insetti) si muovono compatti assumendo una forma sferica che si dipana a partire da un centro comune. Si tratta di una misura difensiva adottata per sfuggire alle minacce dei predatori, ma è anche un esercizio di coesione che potenzia le funzioni idro-aerodinamiche degli organismi stessi.
Una baitball coordinata, che si muove luccicante all’unisono, è un’immagine ipnotizzante; centinaia o migliaia di individui che si muovono insieme come sotto controllo radio o seguendo una coreografia prestabilita. Sono ancora più sorprendenti se si considera che al loro interno non esiste alcun leader né alcuna gerarchia. 
Le “bolle” si formano attraverso quell’emergenza spontanea nota come auto-organizzazione. Quest’ultima si costituisce procedendo dal basso verso l’alto; è un fenomeno a-centrico e non lineare, un processo irreversibile che, grazie all’azione cooperativa di sottosistemi, conduce a strutture più complesse nel sistema globale.
Una baitball ruota, si contrae, si espande, si separa e torna a essere tutt’uno, senza soluzione di continuità: singole individualità con una mente alveolare. La coesione è ottenuta attraverso il coordinamento di ciascun individuo rispetto a quello più vicino. Una massiccia bolla coordinata è costituita da migliaia di azioni individuali che compongono un unico movimento collettivo.

Conformazioni di aggregati eterogenei che si distribuiscono nello spazio sono universali tra gli organismi viventi, dai batteri ai grandi vertebrati. Ma se le caratteristiche specifiche delle aggregazioni colpiscono visivamente l’occhio umano, un’analisi euristica basata sulla visione umana non è sufficiente per rispondere a domande fondamentali su come e perché gli organismi si aggreghino, né riesce a spiegare come e perché i medesimi processi associativi investano elementi “inanimati” come il vapore acqueo, le dune di sabbia, le galassie, in cui questi pattern derivano da semplici interazioni abiotiche tra i singoli componenti.

Il progetto BAITBALL segue lo stesso meccanismo comunitario, naturale e universale per creare un soggetto/oggetto ibrido, una dimensione collettiva, ciò che rimane dopo aver eliminato le nozioni artificiali di natura e cultura. Essa emerge dall’articolazione continua di umani e non-umani, artefatti, inscrizioni, animali, vegetali, spiriti, antenati, dèi, organismi e protesi tecnologiche, locale e universale, paure apocalittiche e speranze tecnologiche. 

“Us and our technologies in one vast system – to include human and nonhuman agency and understanding, knowing and unknowing, within the same agential soup[1]”.

BAITBALL non è né un oggetto né un soggetto: è una relazione. È un fenomeno rappresentabile solo come un’interazione che consente di passare dall’“ottusità dell’io alla fluidità del noi”. BAITBALL non è un punto fisso, una struttura invariante, bensì un essere in circolazione che disegna una rete multicentrata. È un reticolo intrecciato che agisce costantemente con tutti gli altri artefici del mondo, animati e inanimati. Al suo interno, le associazioni di umani e non-umani diventano percorsi conoscitivi del mondo perché lo generano con la loro azione reciproca, hic et nunc. 

BAITBALL è un toroide; in essa l’energia fluisce da una estremità, circola attorno al centro e fuoriesce dalla parte opposta. È bilanciata, si autoregola, può autosostenersi ed è fatta della stessa sostanza che la circonda, come un tornado, un anello di fumo nell’aria o un vortice nell’acqua. Il toroide consente a un vortice di energia di scorrere verso l’esterno per poi ripiegare su se stesso. Così l’energia di una BAITBALL si rigenera continuamente e, allo stesso tempo, si espande autoriflettendosi su se stessa.

BAITBALL non è un macrorganismo, né una sussunzione delle parti in una superiore totalità, ma una inter-penetrazione delle entità, una zona di indistinzione e trasformazione.
[…] everything is connected to something, which is connected to something else. While we may all ultimately be connected to one another, the specificity and proximity of connections matters — who we are bound up with and in what ways[2]. 

BAITBALL crea linee di crescita e di movimento; non vive in luoghi bensì lungo sentieri: quella del “viandante” è la sua conditio originaria. La sua dimensione si definisce in base al movimento e alle relazioni, i sui contorni sono così sfumati che una sua definizione diviene possibile esclusivamente da un punto di vista ecologico contestuale. Il suo ambiente non è semplicemente la “cosa” che la circonda, bensì un “imbroglio” inestricabile di linee, un groviglio di sentieri intrecciati. 

This tangle is the texture of the BAITBALL, beings do not simply occupy the world, they inhabit it, and in so doing – in threading their own paths through the meshwork – they contribute to its everevolving weave. Thus we must cease regarding the world as an inert substratum[3].

Se il potere/sapere moderno, coloniale, naturalista, tende a contrarre l’azione del collettivo in un sistema ordinato (una struttura, una scacchiera, una cartografia), BAITBALL estende invece la percezione della realtà a un multiverso fatto di tracce, trame e intrecci – dalla proiezione di luminose catene immaginarie fra una stella e l’altra alla costruzione di sigilli magici, alla chiroscopia o ad altre forme di mantica. Tale processo amplifica l’originario intreccio di organismi, mitologie e relazioni ecologiche. 

BAITBALL is a place where to live together across difference. Whatever the new arrangements will bring, human exceptionalism and individualism will very likely be a difficult embarrassment for dreaming up new worlds to become-with-others[4].

L’ecosistema che emerge dalla prospettiva della BAITBALL implica la riconsiderazione della teoria dell’evoluzione darwiniana: anziché considerare classi separate come individui, regni, specie, biomi, occorre considerare le singole entità come vortici in un flusso. Tali entità, di fatto, non esistono in quanto oggetti stabili, ma si mescolano continuamente in un confluire inarrestabile di flussi. BAITBALL descrive una posizione di traduzione, mediazione e relazione che diventa il perno di un modello morfologico e ontogenetico.

“The view of evolution as a chronic bloody competition among individuals and species, a popular distortion of Darwin’s notion of “survival of the fittest,” dissolves before a new view of continual cooperation, strong interaction, and mutual dependence among life forms. Life did not take over the globe by combat, but by networking. Life forms multiplied and complexified by co-opting others, not just by killing them”[5].

BAITBALL si attiva con ciò che non possiamo vedere né prevedere con le conseguenze inattese, indesiderate e invisibili delle azioni collettive, al di là dei limiti della standardizzazione della possibilità di controllo. 

BAITBALL identity is not an object; it is a process with addresses for all the different directions and dimensions in which it moves, and so it cannot so easily be fixed with a single number. BAITBALL is more like a verb. It repairs, maintains, re-creates, and outdoes itself[6]. 

BAITBALL specula sull’amore, sull’amicizia, sul “fare insieme” e sulla fiducia, i quali sono sempre qualcosa in più e sempre qualcosa in meno rispetto alla consapevolezza e alla conoscenza.

BAITBALL è uno stadio evolutivo, un meccanismo strategico per aggirare l’estinzione, per mentire alla morte.

 

Tools: James Bridle, Donna Haraway, Lynn Margulis, Tim Ingold, Timothy Morton, Bruno Latour, Michel Serres.

[1] “Noi e le nostre tecnologie in un unico vasto sistema – per includere l’agency e la comprensione umani e non umani, il noto e l’ignoto, all’interno della medesima zuppa agential”.
[2] “Tutto è collegato a qualcosa che è collegato a qualcos’altro. Mentre alla fine possiamo essere tutti collegati l’uno all’altro, ciò che maggiormente conta è la specificità e la vicinanza delle connessioni – con chi siamo legati e in quali modi”.
[3] “Questo groviglio è la trama della BAITBALL: gli esseri non occupano semplicemente il mondo, piuttosto lo abitano e così facendo – intrecciando i reciproci sentieri all’interno del reticolo – contribuiscono alla costituzione della sua trama evolutiva. Pertanto dobbiamo cessare di considerare il mondo in termini di substrato inerte”.
[4] “BAITBALL è un posto dove vivere insieme attraverso la differenza. A prescindere dalle nuove disposizioni via via introdotte, l’eccezionalità umana e l’individualismo costituiranno molto probabilmente un ostacolo difficoltoso alla possibilità di sognare nuovi mondi per evolvere-con-altri”.
[5] “La concezione dell’evoluzione intesa come una sanguinosa competizione cronica tra individui e specie, una distorsione popolare della nozione darwiniana di “sopravvivenza del più adatto”, si dissolve davanti a una nuova visione di cooperazione continua, forte interazione e dipendenza reciproca tra le forme di vita. La vita non ha conquistato il mondo mediante la lotta bensì attraverso la capacità di fare rete. Le forme di vita si sono moltiplicate e sono divenute sempre più complesse cooptando le altre, non unicamente uccidendole”.
[6] “L’identità della BAITBALL non è riconducibile a quella di un oggetto; è piuttosto un processo che possiede una sorta di indirizzo per ciascuna delle diverse direzioni e dimensioni in cui si muove. Pertanto, non può essere ridotto a un singolo numero. BAITBALL è più simile a un verbo. Ripara, mantiene, ricrea e supera se stesso”.

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Superhost, Installation view

Superhost

Superhost

AGF HYDRA + Callum Leo Hughes + Keiken + Sophie Mars, Maya Ben David, Monia Ben Hamouda, Chiara Camoni, Daniela Corbascio, Stine Deja, Débora Delmar, Andreas Ervik, Michele Gabriele, Julie Grosche, HYPERCOMF + George Tigkas, Motoko Ishibashi, Natalia Karczewska, Botond Keresztesi, Andrea Kvas, Lucia Leuci, Valerio Nicolai, Ornaghi & Prestinari, Jaakko Pallasvuo + Anni Puolakka, Nuno Patrício, Clemen Parrocchetti, Andrew Rutherdale, Namsal Siedlecki, Micah Schippa, Mireille Tap, The Institute of Queer Ecology, Patrick Tuttofuoco, Wisrah Villefort
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"Ensemble" Video program curated by Julie Grosche, with: Lola Gonzàlez, Florian Sumi, Emma Frost Nixon, Laura Gozlan, Katy McCarthy, Christine Navin, Elizabeth Orr, Laura Porter, Deirdre Sargent, Lucas Seguy, Yoan Sorin, Marc Yearsley, Vijay Masharani, Katy McCarthy, Virginia Lee Montgomery, Chloé Rossetti, Yoan Sorin
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Testi e contributi di: Murray Cox (Inside Airbnb), Cecilia Guida, Darren Marshall, Like A Little Disaster

A cura di Like A Little Disaster e PANE Project

4 Agosto / 22 Ottobre 2019 @Foothold, Polignano a Mare

In un ecosistema totalmente turistificato come quello di Polignano a Mare, “SUPERHOST” usa la strategia del camouflage come ironica ipotesi di resistenza.
“SUPERHOST” è un vero/finto bnb che si manifesta attraverso un’identità dissolta in un camaleontismo permanente. Esso emerge come un sistema complesso di strategie di presentazione (del me, del prossimo) e di rappresentazione (del sé, degli altri) che operano secondo forze in gioco. Queste forze ridefiniscono – riorganizzano e ridispiegano – le forme del visibile; ci invitano a ripensare l’idea di segno e di produzione segnica, di rappresentazione e di distorsione della rappresentazione.
L’interpretazione dell’ambiente di “SUPERHOST” non ha a che fare con i concetti di verità e finzione. Al suo interno non è necessario che i segni impiegati siano veri o falsi, ma efficaci. A valere è la credibilità del simulacro offerto all’altro, le mosse interattive e i regimi di credenza e di sospetto che s’innescano.
La messa in scena reitera mantenimento del dubbio, di un duo-habere, il non riuscire a trovare una soluzione univoca nell’osservazione, il mantenere vivi entrambi gli estremi della coppia cognitiva vero/falso.

Lo sguardo, il filtro interattivo tra verità dalla finzione è messo in relazione con la teoria del “sight seeing” (‘vedere le cose da vedere’), secondo la quale l’esperienza turistica (o l’esperienza del consumatore contemporaneo tout court) sarebbe profondamente alterata per il fatto di essere preselezionata e preconfezionata, connotata da una serie di miti sociali dipendenti da costruzioni storiche rivolte a una specifica classe, quella agiata. L’industria turistica nasce dall’alienazione prodotta dal capitalismo nel quale anche il tempo libero e lo svago sono plasmati dal carattere coatto di una società ripiegata sul proprio smatphone, e il viaggio organizzato diventa l’emblema della totalitarietà di questo sistema. L’industria turistica è totalmente dentro quella culturale. Ciò che si acquista è un capitale simbolico ma paradossalmente la liberazione dal mondo dell’industria avviene mediante la creazione di un’altra industria.
Nel momento in cui il turismo diventa un fenomeno massificato l’elemento che serve di norma al viaggio è la “sight”, la cosa da vedere, classificata con una, due o tre stelle, secondo il suo valore. Il turista conosce l’oggetto come “sight”, vale a dire come elemento normalizzato, degno di essere assunto come obiettivo di un’esperienza. La dominanza della sight, la traduzione in immagini delle cose e la loro normalizzazione reagiscono sulle cose stesse, riducendole alla condizione di museo, di orto botanico, di giardino zoologico o luna park. Messe in vetrina, le cose da vedere subiscono una trasformazione capitale: sono distaccate dal loro contesto, private delle loro reti, del rapporto con le condizioni che le hanno determinate e che possono, esse sole, spiegarle.
SUPERHOST esplora l’inautenticità: nel senso che il turista in viaggio non vedrebbe il mondo così come esso è realmente, ma solo il mondo che è stato selezionato per lui / o predisposto accuratamente dalle stesse comunità locali; non vedrebbe quindi delle cose, naturali o culturali che siano, ma solo la loro immagine. L’articolazione spaziale forgiata dall’ansia per il verosimile e per l’iconico, riprende in definitiva segni di segni con cui siamo abituati a rappresentare il mondo, l’altrove, l’alterità.

La seduzione subentra alla persuasione.

Il segno è fatto per mentire!

Nel suo complesso il progetto cerca di mettere a fuoco alcune trasformazioni topologiche che portano dal locale al globale e poi riornano al locale. I macro-attori sono composti di micro-attori – gli aggregati non sono fatti di materiale diverso da quello che aggregano.

Indice:

I
Gli effetti reali del capitalismo immateriale.

II
La distruzione creatrice praticata dall’industria turistica. Produrre crescita e sviluppo economico distruggendo le basi su cui quella crescita era basata.

III
La nozione di turistificazione e i suoi parenti ontologici, (gentrificazione, commodificazione).
Airbnb come strumento per la discriminazione sociale e raziale.

IV
Le condizioni del lavoro contemporaneo (e del lavoro emotivo) relative al post-bio capitalismo.

V
L’alienazione che circonda il terzo settore – la preoccupazione di essere sostituiti dalla macchina.

VI
Come diventare SUPERHOST. Come essere SUPERHOST con una sola stella triste.

VII
Sharing/green economy e impatto ecologico.

VIII
Overtourism.

IX
Plastiche, tubature, impianti fognari.

X
Touring Cultures: una pescheria che diventa la caricatura di una pescheria.

XI
Brandizzazione della sfera privata e dello spazio pubblico. Privatizzazione dello spazio pubblico e la simultanea estensione-ostentazione pubblica della vita privata.

XII
Il senso di comunità/collettività. I concetti di con-divisione e con-vivenza (all’interno di una visione della rete estesa all’umano – non umano, al biologico tecnologico).

XIII
L’ambivalenza schizofrenica tra l’immagine di apertura e accoglienza che molte città e regioni cercano di dare di se stesse, e le contemporanee politiche globali/locali che usano categorie che chiudono ed escludono.

XIV
Vacanzieri come iperoggetti.

XV
4,5 gigatonnellate di CO2 ogni anno.

XVI
Adela/Xenia.

XVII
Turismo come forma di neocolonialismo
+
Se la “natura” ci ha insegnato che la diversità è una necessità perpetua e urgente, cosa può accadere a un territorio trasformato in monocoltura attraverso un’economia unidirezionale?

Il Locale (un abitante del luogo) e il Turista
Una conversazione.

Testo di Darren Marshall

Duane Hanson, Tourists II
Duane Hanson, Tourists II

In una triste e umida apologia di un pomeriggio di fine dicembre, Mr. Locale (un abitante del luogo) entra nella Scottish National Gallery of Modern Art di Edimburgo per trovare momentaneo riparo dalla pioggia accecante. Prende posto di fronte a “I Turisti II”[1] di Duane Hanson – due sculture a grandezza naturale raffiguranti due turisti, un uomo e una donna – e si stupisce vedendo la figura maschile sbattere le palpebre e, con un leggero spostamento di peso dalla gamba sinistra alla gamba destra, emettere un leggero sospiro e fare un passo avanti. Non avendo familiarità con la living art e i relativi protocolli di interazione e coinvolgimento, ma essendo un soggetto geniale dotato di buone maniere, Mr. Locale offre alla scultura del Turista un posto sulla panca accanto a sé e gli passa una fiaschetta che tira fuori dal taschino. Bevuto un sorso, le iridi vivamente dilatate, il Turista inizia a parlare.

 

Turista «Da qualche parte in cui non sono mai stato, piacevolmente al di là di ogni esperienza»[2].

Locale E.E. Cummings, uno dei miei preferiti. Dalla didascalia e dal tuo abbigliamento deduco che sei un turista, e dal tuo accento che sei un connazionale di Cummings. Hai mai letto poesie scozzesi?

Turista «Il Cosmo trascurato, mia dimora, io passo, un estraneo ostinato: la mia padrona è ancora la strada aperta»[3].

Locale  Songs of Travel di Stevenson. Si addice a un turista. È la prima volta che ti trovi in Scozia?

Turista  È difficile da dire. Non sono certo di essere stato cosciente in precedenza, ma potrebbe trattarsi di un problema di memoria. Anche se come turista sono certamente consapevole di essere qui adesso. Ti dispiacerebbe se ti fotografassi?

Locale  Assolutamente no, fai pure. 

Mr. Locale alza la fiaschetta, beve un sorso e, tenendo in mano la bevanda, assume la posa di una scultura, mostrando un sorriso gioviale mentre il Turista solleva la sua macchina fotografica per catturare il momento.

Locale Slàinte Mhath!

Turista Cheers![4]

Locale Whisky. Uisge beatha. Significa ‘acqua di vita’[5]. «Sento questo fiume che scorre dentro di me, il suo passato, la terra antica, il clima mutevole. Le colline gli fan dolce corona: il suo corso è stabilito»[6].

Mr. Locale passa la fiaschetta al Turista, che beve un altro sorso. 

Turista A Roma. A mio avviso batte il bourbon o il whisky di segale. Non ho mai bevuto scotch finché non sono stato in Scozia. È stata, o meglio è, un’esperienza nuova e molto gradita. Si può dire che è una delle cose che più mi piacciono dell’essere un turista – sperimentare cose nuove. Specialmente nuove forme di alcol.

Locale Dall’aspetto di tua moglie, direi che lei è incline più a sperimentare il lato gastronomico delle cose. Anch’io apprezzo un buon pasto. Non posso fare a meno di notare che non si è spostata come hai fatto tu.

Turista Riesce a restare pietrificata in quella posizione. Ipnotizzata, quasi. Ama osservare cose che non ha mai visto prima; per altro, non è una che si muove molto. Preferisce starsene seduta piuttosto che in piedi. Ma datele una panca con vista su qualcosa di nuovo e diventa quasi religiosa nella sua contemplazione di ciò che ha a portata di mano.

Locale «La nostra destinazione non è mai un luogo, bensì piuttosto un modo nuovo di vedere le cose»[7]. I turisti non mi dispiacciono, ne abbiamo parecchi qui a Edimburgo, ma c’è gente secondo la quale il turismo e la contemplazione si escludono a vicenda. Guarda quel mucchio di gente laggiù, non sta nemmeno guardando i dipinti, si limita semplicemente a fotografarli. I vostri commentatori e critici culturali lo considererebbero come la prova del fatto che il turista costituisce l’incarnazione della perdita della capacità, da parte dell’uomo, di sperimentare le cose in modo appropriato.

 

Turista Certo, noi turisti portiamo questo fardello, soprattutto se siamo americani. Ma penso sia ciò che Duane – mio padre – intendesse affrontare quando mi ha creato. Dipingendo queste vene e queste macchie cutanee su di me, ha fatto in modo che il turista, il visitatore, diventasse egli stesso il luogo visitato, la destinazione, mettendo in luce un’umanità comune, al fine di sovvertire le banali accuse mosse al nostro status di turisti. Ho visto molti occhi che mi guardavano, e direi che per la maggior parte delle persone sono uno stereotipo, ma penso che per Duane io sia più un archetipo. Il turista visto come un vagabondo che cambia forma, riconfigurandosi attraverso il tempo, la geografia e la cultura. Mark Twain ha detto che «il viaggio è fatale ai pregiudizi, al bigottismo e alla chiusura mentale»[8], ma credo che il viaggiatore o il turista stessi siano spesso soggetti a tali forme di preconcetto.

Dietro suggerimento di Mr. Locale, i due iniziano a fare un giro all’interno degli spazi della galleria. Nelle sale dedicate all’arte del XVI e XVII secolo, si siedono di fronte a un grande dipinto, il ritratto di Francis Basset, 1º Barone di Dunstanville e Basset (1757-1835), realizzato dall’artista italiano Pompeo Batoni. L’opera raffigura il futuro barone del ‘Grand Tour’, con Castel Sant’Angelo e la Basilica di San Pietro sullo sfondo[9].

Locale (Gesticolando verso il dipinto) Ovviamente i turisti si affollano tutti in Italia. Suppongo che la differenza percepita tra il Grand Tour e il turista medio sia una differenza di intenti. Il tuo ‘gran turista’ vede il viaggio come un’osservazione accademica o didattica delle culture straniere, laddove si presume che per il turista moderno il viaggio sia una forma di svago o, se leggo correttamente la didascalia, una ‘distrazione dal nulla del tardo XX secolo sotto la lucentezza della cultura consumistica’. Senza offesa. In ogni caso è difficile immaginare il Barone di Dunstanville e Basset farsi un selfie in perizoma a Chernobyl o calare i pantaloni a qualcuno davanti a una fotocamera a Machu Picchu, come titola la stampa attuale, indignata, a proposito dei turisti.

Mentre guardano il ritratto, Mr. Locale e il Turista osservano con stupore la figura dipinta del Barone sbattere le palpebre e, con un leggero spostamento di peso dalla gamba sinistra a quella destra, emettere un leggero sospiro e rivolgere loro la parola.

Francis Basset, 1° Barone di Dunstanville e Basset Accademica e didattica? Avete letto i diari di viaggio di Boswell o Byron? Religione, filosofia, sottovesti e passeggiate libidinose. Si possono vedere solo molte rovine prima che la brevità della vita ci sommerga e sopraggiunga la necessità di trovare rimedi all’incantesimo.

Turista Forse per la gente del posto è irritante vedere i propri simili dare priorità all’aspetto sensuale, mentre essi stessi sono assorbiti dalle preoccupazioni pratiche della quotidianità. Conosci la poesia Turisti di Yehuda Amichai? Ho sempre trovato quella poesia vagamente soffocante, in parte condiscendente. Come può l’autore della poesia comprendere con un mero colpo di scopa la riflettente profondità di tutti coloro che vagano attraverso monumenti commemorativi, storie, vecchie strade e vite passate? Sembra che ci sia un senso malriposto di paternità letteraria, come se tali luoghi e tale passato gli appartengano in virtù del suo essere un locale, uno del posto, o del suo essere dotato di un’inclinazione alla sensibilità maggiore rispetto a quella posseduta dai turisti indegni. E poi sostiene che, per i turisti, «la redenzione arriverà solo se sarà la loro guida a dire loro: Vedi quell’arco di epoca romana? Non è importante: ma accanto ad esso, a sinistra e leggermente più in basso, c’è un uomo che ha comprato della frutta e della  verdura per la sua famiglia’’»[10].

Francis Basset, 1° Barone di Dunstanville e Basset Una volta presi del laudano sotto un arco romano. Sopravvalutato, direi. Il laudano, non l’arco. L’arco era bello.

Locale  Non siamo tutti turisti, in ultima analisi?

Turista Possiamo essere filosofici finché vi pare, disquisendo del mio simbolismo intrinseco, di ciò che posso o non posso rappresentare e, ok, credo che ciò abbia la sua importanza. Huxley ha scritto: «Per chi è nato viaggiatore, viaggiare è un vizio fastidioso. Al pari degli altri vizi, è autoritario ed esige dalle proprie vittime tempo, soldi, energia e la rinuncia ai comfort»[11]. Ma ritengo ci si debba interrogare anche sulla misura in cui tale vizio richieda non solo tempo, denaro ed energia ai viaggiatori, bensì anche la destinazione – richiesta che riguarda anche la gente del luogo, i locali come te. Il filosofico e il sociale non sempre intonano la stessa melodia; tuttavia, l’arte, aggregante o empatica, può chiederci di farlo.

Locale Un’opinione diffusa tra gli abitanti locali è certamente quella secondo cui il turismo sta uccidendo i loro villaggi, paesi e città. A Barcellona lo chiamano Parquetematización’’ – l’atto di diventare un parco a tema. Il tessuto sociale e la sua identità sono travolti da un turismo che rende tutto omogeneo nella mediocrità. Viaggi per mezzo mondo e trovi gli stessi negozi che hai a casa, le stesse catene di multinazionali, la stessa massa di gente intenta a farsi dei selfie mentre fa la fila per entrare in un museo o in una galleria d’arte – istituzioni che spesso costituiscono esse stesse un bersaglio glamour per i turisti. Sovrappopolazione. Troppe persone, per non parlare dei troppi turisti. È tutto ‘troppo’ e il capitalismo ne è la mappa. Come coniugare la fede nella democratizzazione del viaggio con la realtà di un turismo di massa che cambia in modo indelebile i luoghi fagocitati dal suo interesse? Risposte su una cartolina.

Per conto del Turista, il Locale fotografa il Barone e lo stesso Turista, che diconocheese’’. Con un cenno rispettoso verso il Barone, che restituisce un cenno meditabondo di solidarietà alla complessità della loro conversazione, il Locale e il Turista proseguono la loro passeggiata per le sale della galleria. Svoltato un angolo, si imbattono nella scultura della Beata Ludovica Albertoni (1671-74)[12], opera di Gian Lorenzo Bernini – un incontro soprannaturale, poiché la scultura è collocata in modo permanente nella Cappella Altieri, appositamente progettata nella Chiesa di San Francesco a Ripa di Roma, in Italia. Il Locale e il Turista si siedono, rapiti dal gioco di luci restituito dal drappo di marmo.

Locale (Rivolgendosi al Turista) Quello che mi piace di te, come opera d’arte, è la tua allusione alla peregrinazione artistica. Sono galvanizzato dalle odissee creative o dal turismo sperimentale fiorito nel tuo ammirevole lignaggio. La flânerie surrealista, ad esempio, era un vagabondare tra la folla alla ricerca di incontri insoliti. I Situazionisti spinsero per un’arte della dérive, o alla deriva, mediante passeggiate clandestine, itinerari itineranti, interventi diretti e passaggi alternativi attraverso la città volti a confondere le esperienze di routine nuotando controcorrente rispetto alla marea dei media, del marketing e della mercificazione. Gli artisti del movimento Fluxus organizzarono dei Free Flux-Tours in aree marginali della città, nel tentativo di reindirizzare i viaggiatori lontano dalle prerogative geografiche del capitalismo. Le agenzie turistiche dovrebbero essere possedute e gestite dagli artisti.

Turista Conosci le tue radici artistiche, qual è la tua storia?

Locale Preferirei non dirlo. Noi locali dobbiamo tenere qualcosa per noi stessi. Anche rispetto agli altri locali. La condivisione è sopravvalutata, un sintomo dell’ansia post-religiosa e del conseguente bisogno di dimostrare che siamo esistiti. Spero non ti dispiaccia.

Turista Certo che no. Sei stato molto gentile con me. Credimi, l’aria che tira a proposito della percezione degli estranei è cambiata da quando sono stato selezionato. La figura del viaggiatore straniero visto come una minaccia è diventata endemica dopo i fatti dell’11 settembre. ‘Psycho Hitchhiker’ del tuo collega Scot Douglas Gordon ha giocato con questa immagine, credo, quando ha impersonato un autostoppista in mezzo a una strada intento a reggere un cartello rivolto agli automobilisti con su scritta la destinazione ‘Psycho’. In qualche modo turisti, visitatori, immigrati, residenti vittime di diaspora, nomadi e vari altri oltrepassatori dei confini veicolano un senso di potenziale minaccia per l’immaginario locale, regionale e nazionale, nonché per l’intera infrastruttura fisica.

Entrambi tornano a osservare la scultura davanti a loro. Vita e morte. Una scultura funeraria sovrastata da un respiro toccante e vivo. La luce fluttuante, modificata dal passaggio delle nuvole mentre si muove sul marmo morto, dà l’illusione che quest’ultimo si muova con il suo respiro. Le pieghe delle vesti ondeggiano esitanti tra il tumulto e la coalescenza nella quiete, tra una cascata e il mare ghiacciato. Mentre guardano la figura di Ludovica, il Locale e il Turista si stupiscono vedendola battere le palpebre e poi, con un leggero spostamento nel marmo, sospirare leggermente e, voltandosi, sorridere loro con dolcezza.

Beata Ludovica Albertoni «Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi»[13].

Locale Devo tornare a casa, mia moglie si starà chiedendo dove sono, e anche la tua. Sai che ore sono?

Turista Il mio orologio da polso segna le 10:30 dal 1988. Sai che lei in realtà non è mia moglie, vero? Duane ci ha fatti in giorni diversi, non ci siamo mai davvero conosciuti in carne e ossa. Ma come vetroresina, è un’ottima compagna di viaggio.

Il Locale e il Turista tornano nella sala in cui si erano incontrati e si scambiano una stretta di mano silenziosa e amichevole. Rinunciando a una fugace voglia di farsi un selfie con il cellulare, il Locale decide di consegnare il loro incontro ai capricci del proprio bagaglio di ricordi, per essere rigirato dal flusso della corrente. Il Turista si dispone in un’immobilità senza tempo, un ricordo, una fotografia dell’infanzia, un souvenir turistico che parla del nostro bisogno di assorbire il mondo in una significazione incessante, una registrazione intima della nostra variabile esistenza, il visitatore che incide le sue iniziali sul Colosseo, piscia su Stonehenge, sorseggia un margarita, tremante di fronte a un tramonto etereo, in visita da qualche parte per la prima volta, in visita da qualche parte per l’ultima volta.

[1] Duane Hanson: More than Reality, 2001, Schirn Kunsthalle, Frankfurt (2001, mostra esposta presso: Padiglione d’Arte Contemporanea, Milano; Kunsthal, Rotterdam; National Galleries of Scotland, Edimburgo; Kunsthaus Zurich).

[2] E.E. Cummings, Somewhere I have never travelled, gladly beyond, in E.E. Cummings, Complete Poems, Liveright Classics, 2013.

[3] R.L. Stevenson, Youth And Love: I, in Songs of Travel, Kessinger Publishing Co., 2004.

[4] Le due espressioni, ‘slàinte mhath’ e ‘cheers’ sono qui utilizzate come sinonimi, con il significato di augurio, equivalenti all’italiano ‘salute!’ [N.d.T.].

[5] L’espressione uisge beatha costituisce la versione irlandese del termine whisky e corrisponde al latino aqua vitae [N.d.T].

[6] H. Miller, Tropic of Cancer, Grafton, 1965; [trad. it. di L. Branciardi, Tropico del Cancro, Feltrinelli, Milano 2013].

[7] H. Miller, Big Sur and the Oranges of Hieronymus Bosch, New Directions, 1957; [trad. it. di V. Mantovani, Big Sur e le arance di Hieronymus Bosch, Mondadori, Milano 2000].

[8] M. Twain, The Innocents Abroad / Roughing it, Library of America, 1984; [trad. it. di S. Neri, Gli innocenti all’estero. Viaggio in Italia dei nuovi pellegrini, BUR, Milano 2001].

[9] Pompeo Batoni, Ritratto di Francis Basset, 1º Barone di Dunstanville e Basset (1757-1835). Questo dipinto non è mai stato esposto alla Scottish Gallery of Modern Art. L’opera è stata realizzata a Roma, mentre il soggetto rappresentato si trovava lì ma, spedita in Inghilterra a bordo della fregata britannica HMS Westmoreland, fu sequestrata dai francesi. Più tardi, fu venduta dagli stessi francesi a Carlo III di Spagna ed ora è custodita presso il Museo del Prado.

[10] Y. Amichai, Tourists, in Poems of Jerusalem, HarperCollins, 1988.

[11]A. Huxley, The collected works of Aldous Huxley, Chatto & Windus, 1969.

[12] Gian Lorenzo Bernini, Beata Ludovica Albertoni (1671-74). Questa scultura non è mai stata esposta alla Scottish Gallery of Modern Art. La scultura si trova nella Cappella Altieri, appositamente progettata nella Chiesa di San Francesco a Ripa di Roma, in Italia.

[13] F. Kafka, Letter to Oskar Pollak (27 January 1904) in Id., Letters to Friends, Family and Editors, Schocken Kafka Library, 1990.

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Imbroglio (or the ability to incorporate possibilities), installation view

Imbroglio (or the ability to incorporate possibilities)

Imbroglio (or the ability to incorporate possibilities)

Naomi Gilon, Nona Inescu, Lucia Leuci, Lito Kattou

A cura di Like A Little Disaster

28 Aprile / 20 Giugno 2019, @Foothold, Polignano a Mare

L’essere umano è fin dalle sue origini filogenetiche un ibrido, un camaleonte culturale ibridato con l’alterità tecnica, animale e vegetale. La tecnica si è già inserita nel corpo ancor prima dell’epoca postmoderna: la forma delle mani si è evoluta in base alla manipolazione di oggetti e realtà esterne, così come le altre facoltà biologiche e culturali si sono sviluppate in base a fattori esterni selettivi di competizione e collaborazione intraspecifica e interspecifica, ma non solo, anche in base alla possibilità o meno di relazionarsi con la realtà inanimata con cui la specie umana ha sempre avuto relazione. Come le forma della mantide orchidea (Hymenopus coronatus), che, in una foresta, dipende dall’instaurarsi dell’habitat, dell’alterità materiale e della partnership evolutivo-mutualistica nel suo codice genetico, così la collaborazione con il mondo inanimato e con l’alterità animale e vegetale si è instaurata nel codice genetico della nostra specie, nella nostra carne (la tecnica come potenziamento, prolungamento di facoltà o di sensi) come nelle nostre produzioni culturali. L’essere umano è uno dei più importanti progetti compartecipativi creati dalla natura, il che lo rende per definizione un organismo dipendente, correlato e ibridato con l’alterità naturale, abolendo qualsiasi pretesa di purezza, unicità, essenzialità platonica.

Come ampiamente dimostrato dalla biologa Lynn Margulis; la vita non colonizzò il mondo attraverso il combattimento ma istituendo interrelazioni. Le forme di vita si moltiplicarono e divennero sempre più complesse attraverso una cooptazione di altre, non soltanto attraverso la loro estinzione. La visione dell’evoluzione come competizione cruenta cronica tra individui singoli e specie, distorsione della teoria darwiniana della “sopravvivenza del più idoneo”, si dissolve dinanzi alla visione nuova di una cooperazione continua, di un’interazione forte e di una dipendenza reciproca tra forme di vita.

1+1=1

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Dal paramecio all’uomo, tutte le forme di vita sono dotate di un’organizzazione minuziosa, sono aggregati raffinati di una vita microbica in evoluzione. Lungi dall’essere rimasti indietro in una “scala” evolutiva, i microrganismi ci circondano e compongono il nostro essere. Tutti gli organismi attuali, essendo sopravvissuti fin dagli albori della vita lungo una linea che non si è mai interrotta, si trovano a un eguale livello di evoluzione.

Questa constatazione serve a smascherare in maniera netta la vanità e la presunzione insite nel tentativo di misurare l’evoluzione mediante una progressione lineare dal semplice (il cosiddetto inferiore) al più complesso (con gli esseri umani in cima alla gerarchia, come le forme situate in assoluto “più in alto”). Ma gli organismi più semplici e più antichi sono non soltanto i predecessori delle comunità biotiche terrestri e del loro attuale substrato, ma sono anche pronti a espandersi e a modificare se stessi e il resto dei viventi, se noi, organismi “superiori”, fossimo così stupidi da annientarci. La visione dell’evoluzione come competizione cruenta cronica tra individui singoli e specie, distorsione della teoria darwiniana della “sopravvivenza del più idoneo”, si dissolve dinanzi alla visione nuova di una cooperazione continua, di un’interazione forte e di una dipendenza reciproca tra forme di vita.

Sotto il controllo del DNA, la cellula vivente produce una copia di sé, sfidando così la morte e conservando la propria identità attraverso la riproduzione. Eppure, essendo anche suscettibile di mutazioni, che modificano a caso la sua identità, la cellula ha la capacità di sopravvivere al cambiamento.

Nel corso degli ultimi cinquant’anni gli scienziati hanno osservato che i procarioti trasferiscono abitualmente e rapidamente differenti frammenti del loro materiale genetico ad altri individui. In qualsiasi momento, ogni batterio può utilizzare questi geni accessori, che provengono talvolta da ceppi molto diversi e svolgono funzioni per le quali il suo DNA non è competente. Alcuni di questi frammenti vengono ricombinati con i geni originali della cellula; altri vengono ulteriormente trasferiti. Alcuni frammenti genetici estranei possono inserirsi facilmente anche nell’apparato genetico delle cellule eucariotiche (per esempio, le nostre cellule).  Adattandosi costantemente e rapidamente alle condizioni ambientali, gli organismi del microcosmo sostengono l’intera comunità biotica, dato che la loro rete di scambi globali interessa, in definitiva, ogni pianta e animale vivente. Un “superorganismo” che comunica, collabora e coopera su una scala spaziale e temporale che trascende il genere umano, creando alleanze che non sono semplicemente la somma delle loro rispettive parti che entrano in simbiosi, ma piuttosto qualcosa di simile alla somma di tutte le possibili combinazioni di queste parti. La simbiosi, la fusione di più organismi in nuovi collettivi, dimostra di essere il più grande motore di cambiamento sulla Terra. La storia di ogni individuo che cresce, che raddoppia la propria mole e che si riproduce, è una storia di grande successo. Eppure, proprio come il successo del singolo individuo si riassorbe in quello della specie a cui egli appartiene, così la specie viene inglobata nell’intreccio che interessa tutti i viventi: un successo che ha un ordine di grandezza ancora superiore.

Il nostro corpo contiene in sé una vera e propria storia della vita sulla Terra. Le cellule conservano un ambiente ricco di carbonio e di idrogeno, come quello della Terra quando la vita ebbe inizio. Vivono in un mezzo costituito da acqua e sali, che ricorda la composizione dei mari primitivi: diventammo quelli che siamo grazie all’associazione di partner batterici.

Queste e altre reliquie viventi di individui un tempo separati, scoperte in varie specie, non fanno che accrescere la certezza che tutti gli organismi visibili si siano evoluti per simbiosi, cioè vivendo insieme in una condizione di reciproco beneficio mediante la condivisione permanente di cellule e corpi. Deriviamo, lungo una sequenza ininterrotta, dalle stesse molecole presenti nelle cellule primordiali. I nostri corpi, come quelli di tutti gli esseri viventi, conservano in sé l’ambiente di una Terra passata. Coesistiamo con i batteri di oggi e ospitiamo in noi vestigia di altri batteri, inclusi simbioticamente nelle nostre cellule. In questo modo, il microcosmo vive in noi e noi in esso.

Una prospettiva del genere fa crollare ogni presunzione umana di sovranità su tutto il resto della natura, essa lancia la sfida anche alle nostre concezioni di individualità, di unicità e di indipendenza. Non rispetta nemmeno la visione che abbiamo di noi stessi come esseri fisici ben distinti, separati dagli altri viventi. Il pensare all’umanità e all’ambiente che la circonda come a un mosaico di vita microscopica è come immaginare che essa venga presa, dissolta, annientata.

Ex novo:

Esiste un io? Esiste un noi?

Siamo ibridi riottosi a ogni classificazione, nodi di una rete che lega in una catena ininterrotta fattori molteplici e distanti, e che rischiano di far saltare tutti gli ordinamenti, tutti i programmi, tutti gli effetti.

Fluttuiamo insieme agli elementi, non c’è nessun “io” e nessun “noi” umano. Noi stessi siamo fatti di miliardi e trilioni di piccoli parti dotati ciascuno di intelligenza propria, che si tratti di una cellula o di qualcosa di ancora più piccolo, una particella subatomica. Quindi non esiste in realtà nemmeno il “noi”. Esiste come equilibrio provvisorio, fragile di coalescenza tra cose diverse. E quel “noi” ha una molteplicità in sé e agisce costantemente con tutti gli altri artefici del mondo, animati e inanimati.

Il Sé Emerge dalle Comunità (Batteriche). L’identità non è un oggetto ma un processo che si espande in ogni direzione e dimensione, e quindi non può essere definita attraverso un numero singolo.

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Heedful Sight, installation view

Heedful Sight

Heedful sight

Joachim Coucke, Maurizio Viceré

A cura di Mattia Giussani - Organizzata e supportata da Like a Little Disaster

25 Novembre 2018 / 30 Gennaio 2019, @Foothold, Polignano a Mare

“Heedful Sight” è il secondo appuntamento di TALEA, una serie di progetti curati da Like A Little Disaster focalizzati sulle pratiche di curatori internazionali.
La talea è il frammento di una pianta usata per la propagazione vegetativa (asessuata). Generalmente la talea viene sistemata nel terreno o nell’acqua per rigenerare le parti mancanti, dando così vita ad una nuova forma di vita indipendente da chi l’ha originata.

Nella società digitale automatizzata nella quale viviamo, ci sembra di essere da un lato guardati, violati o spiati da agenzie governative e corporazioni, e dall’altro curiosi delle vite altrui attraverso il costante flusso dei social media feeds. Due esempi recenti di questa condizione sono il GCHQ (Government Communications Headquarters), una delle agenzia di intelligence e sicurezza del Regno Unito, che ha intenzione di aumentare i suoi sistemi di hackeraggio dei dati, o Google, che sta aiutando le agenzie militari e governative attraverso la geolocalizzazione del servizio Google Earth. Questa onnipresente dicotomia, questa continua esperienza di essere guardati e guardare, è un’importante contraddizione del comportamento umano contemporaneo, causato dalla nostra dipendenza dalla struttura computazionale e tecnologica, specialmente su un livello cognitivo ed ecologico.

In Heedful Sight, Joachim Coucke e Maurizio Viceré presentano elementi che esplorano le cause e gli effetti di questa collisione. Guardando ai loro lavori in mostra possiamo osservare come essi agiscano come forze divergenti, come due diversi poli di una batteria che si complementano l’un l’altro.

I cinque dipinti della serie Kh di Maurizio Viceré si estendono nelle tre stanze di Foothold affrontando diverse suggestioni. Questi paesaggi modificati nelle tonalità dei blu e dei neri ci mostrano una realtà pixelata, poco chiara nebbiosa. A prima vista possono sembrare l’immagine distorta degli screensaver che troviamo di default in ogni un nuovo computer o portatile. Riguardandoli meglio però, possono essere percepiti come un ambiente ecologico esausto dal quale materiali grezzi vengono estratti per produrre i gadget tecnologici che usiamo ogni giorno, o come una versione post-apocalittica del cielo, con le nuvole che alludono alle nuvole digitali che immagazzinano tutti I nostri dati. Il logo di Google e’ presente in tutti dipinti. Ogni logo è quasi mimetizzato nei dipinti, rendendo molto difficile la sua individuazione. La sua presenza è una chiara associazione fra l’ambiente digitale creato attraverso la tecnologia e l’onnipresenza di Google al suo interno. Il mondo computazionale é diventato cultura, e con riguardo a Google: esso é diventato indice e arbitro di tutta la conoscenza umana. Inevitabilmente, qualunque cosa trovata su Google diventa quello che la gente pensa.

Come queste circostanze, nelle quali la conoscenza è quasi imposta, incidono sulla nostra visione e percezione del mondo? E cosa accadrà in futuro?

I sette lavori mixed-media realizzati da Joachim Coucke, tutti parte della serie Dwellers, esplorano queste problematiche. Le sculture, installate nelle tre stanze ad altezze diverse, sono un assemblaggio di diversi tipi di rifiuti tecnologici e plastici. La cura e l’attenzione per i dettagli è notevole. Nella loro apparente semplicità, sono complessi e ricchi di dettagli visibili solo ad uno sguardo accurato. Ventole di dischi rigidi, piccoli schermi LED, cavi, cornici di tablet sono solo alcuni dei rifiuti tecnologici prodotti dal capitalismo digitale contemporaneo. Osservando lo spazio espositivo, sembra che questi conglomerati materici stiano attraversando i paesaggi di Vicerè. Queste sculture rappresentano un nuovo tipo di fossile digitale, chiamano in causa l’idea di rifiuto tecnologico e quanto distruttivo possa essere il suo potere; i materiali tecnologici rientrano nel regno ecologico in una forma differente rispetto a quando furono estratti come materiali grezzi. Alcuni di queste concreazioni tecnologiche rivelano anche dei calchi/maschere di facce umane che, senza emozioni ed espressioni, alludono a una perdita di consapevolezza umana parallela, ma anche dipendente, agli avanzamenti tecnologici. Queste maschere prefigurano un futuro dominato dalla perdita di controllo delle nostre azioni e dell’abbandono del nostro pensiero critico.

Mattia Giussani

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Temporarily suspended, instalation view.

Temporarily suspended

Temporarily suspended

Mariantonietta Bagliato, Julie Grosche

A cura di Like A Little Disaster

20 Ottobre / 20 Novembre 2018, @Foothold, Polignano a Mare

Le relazioni rese possibili dalle tecnologie comunicazionali stimolano la revisione di alcuni presupposti fondamentali del concetto di presenza, così come delle relazioni tra corpo e identità, tra individuo e gruppo, che diventano virtuali perché smentiscono il consueto radicamento dell’interazione sociale nella performatività fisica del corpo umano.

Con l’avvento di tecnologie sempre più complesse, e in particolare con lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione, la mediazione tecnologica del flusso di comunicazione tra corpi e identità è diventata più diffusa e indispensabile. Le tecnologie comunicazionali, in qualità di mediatrici delle interazioni tra corpi e identità (o esperienze di sé, o avatar, o persone, soggetti che dir si vogliano), assolvono alle funzioni specifiche di creare e mediare degli spazi e dei gruppi sociali.

I mondi sociali, la forma e la struttura comunitaria si possono fondare in maniera efficace su scambi simbolici in cui il concetto di prossimità risulta essere secondario.

Le tecnologie comunicazionali mettono in crisi le nostre più diffuse convinzioni di comunità e dei corpi che le abitano, convinzioni che presuppongono che le comunità si compongano di aggregati di identità individuali, che ogni identità sia fornita di un unico corpo fisico come involucro e come locus dell’agire umano.

La natura familiare e scontata dei corpi e delle identità, questa storia apparentemente ovvia e tenace che continua ad affermare l’esistenza di un “io” per ogni singolo corpo nasconde, al pari dei concetti di razza e di genere, reti potenti e pervasive, la cui invisibilità serve ad autorizzare e a radicare sistemi di oppressione intrecciati. Non solo le esperienze individuali della corporeità sono – come hanno dimostrato le teorie del genere e del corpo – costrutti sociali; anche la collocazione dell’identità nel corpo è socialmente mediata. La collocazione fisica del soggetto diventa indipendente dal corpo in cui le teorie del corpo sono solite radicarlo, e si colloca in quel sistema di scambi simbolici che è la tecnologia informazionale.

Alle rappresentazioni monolitica dello spazio fisico e virtuale si contrappone la reinvenzione e l’incontro in uno spazio tecnologico concepito come ambiente fisico e sociale, come una sorta di natura all’interno della quale si aggirano soggetti multipli. Il soggetto multiplo è l’enantiomorfo, un essere che si trova al di fuori dal singolo corpo fisico, a cui pure è stato associato per normazione. Il corpo in questione se ne sta seduto da qualche parte di fronte ad un computer, mentre il locus di socialità che dovrebbe essergli associato accade in uno spazio che è irrilevante al corpo stesso. Il cyborg, la personalità multipla, il soggetto tecnosociale implicano una riscrittura radicale del concetto di individuo delimitato.

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Se l’immagine è tradizionalmente considerata come la ri-presentazione di una presenza distante nel tempo o nello spazio, di un “è stato” e quindi una presenza assente che ci tocca, ma non possiamo toccare, l’immagine virtuale è ri-presentazione di un’assenza, poiché nulla è stato, ma assenza che, abolita la distanza tra l’immagine e il modello, è sempre presente: un’iperimmagine, un’immagine autoreferenziale che “non può più immaginare il reale perché coincide con esso”.

Il virtuale emerge in quanto struttura molteplice, potenziale e dinamica che, nell’incessante susseguirsi temporale, rivela delle “punte di realtà”, che non si rinchiudono nel limite della specificazione, bensì sono matrici di continue differenziazioni, senza che vi sia alcun originario modello di riferimento.

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Relazione tra persone e organizzazioni, interessi, storie, comunicazioni, prodotti consumati, dati finanziari, informazioni giudiziarie e sanitarie. Tutto è online e registrato nei database di poche aziende e istituzioni pubbliche. Non sono solo i dati forniti volontariamente dalle persone e quelli raccolti più o meno ad insaputa degli utenti, ma ci sono numerose informazioni ricavate dall’analisi dei dati aggregati da varie fonti. Una volta condivisi, i dati personali vivono di vita propria. La raccolta e la successiva analisi di comprendere, e in taluni casi anche di prevedere, il comportamento degli esseri umani, sia a livello individuale che globale.

Gli algoritmi di analisi comportamentale sono avanzati al punto da poter prevedere la nascita di un bambino quando è ancora nella pancia della madre. Tutto ciò non sarebbe possibile se non fosse per la raccolta e l’analisi dei dati degli utenti. I dati sono la nuova frontiera di Internet, la misura della popolarità di un servizio e la moneta di scambio della rete. I dati degli utenti sono forza lavoro e capitale, il petrolio dell’economia digitale.

Di fatto le aziende (e non solo), tracciano continuamente gli utenti e molto spesso la raccolta è del tutto occulta. Quando non lo è, generalmente non è consentito agli utenti sottrarsi. Talvolta l’utente per difendersi può solo abbandonare il servizio online, disiscrivendosi. E non è detto che non venga tracciato ugualmente. Il cittadino oggi è l’oggetto di una vasta raccolta quasi indiscriminata di dati senza alcun possibilità di scelta e controllo.

 

LIGHT
PROXIMITY
CAMERAS
MICROPHONES (ULTRASOUND)

TOUCH
POSITION
– GPS
–  WIFI (FINGERPRINT)
–  CELLULAR (TRI-LATERATION)
–  NFC, BLUETOOTH (BEACONS)
ACCELEROMETER
MAGNETOMETER
GYROSCOPE
PRESSURE
TEMPERATURE
HUMIDITY

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La marionetta: un corpo-oggetto che esplicita una potenzialità di movimento attualizzabile soltanto tramite una commistione pre-riflessiva tra l’intenzionalità-burattinaio ed il corpo-materia, nel farsi dell’azione ed in una continua ricollocazione dell’evento.

L’avatar: il corpo-immagine che sembra distaccarsi dal corpo organico per superarne limiti intrinseci; dall’altro, laddove si indaghi l’idea di un corpo come campo aperto di forze e variabili, nel tentativo di esaminare la persistente cesura dualistica tra corpo e psiche, coscienza e materia, rimettendo inoltre in discussione i criteri normativi attraverso cui si discerne il normale dal mostruoso, l’uomo dalla donna, il sano dal malato, il naturale dall’artificiale.

L’avatar appare come immagine di, e fonda il proprio statuto ontologico primariamente sull’apparire graficamente, attraverso, ad esempio, l’immagine di un utente; differentemente dalla marionetta, non ha una diretta manipolabilità. Ci è infatti possibile osservare la marionetta, deposta in un angolo della stanza, amorfa e senza vita, girarvi attorno, studiarla nelle sue caratteristiche in quanto oggetto dotato di peso ed estensione. Attraverso l’uso della marionetta, ci è possibile percepirci come corpo vissuto e come reificazione materiale e cinestetica, e al contempo ci è impossibile percepirci unitariamente e contemporaneamente come entrambi, ma dovremo in qualche modo sopportare il “peso” della duplicità.

«…sono spettatore e allo stesso tempo “sopporto”, come se fosse su di me, l’involucro della marionetta, sono il suo volto e il suo corpo di pura apparenza»

Non ci è possibile vestire l’avatar, far sì che la sua apparenza diventi la nostra attraverso il nostro schema corporeo. Se la marionetta è chiave ermeneutica per una riflessione sulla struttura del virtuale e sulla molteplicità di attualizzazione, in quanto azione, gestualità, l’avatar sottende un discorso mimetico.

Comandare un corpo, non è essere quel corpo.

Dove la marionetta presenta uno schema espressivo, l’avatar rimanda alla rappresentazione.

La marionetta e l’avatar approfondiscono la topologia dell’esserci corporeo la logica mimetica e rappresentativa e il concetto di surrogato/sostituzione di un corpo reale. Pur nella loro specificità, entrambi si rifanno alle fattezze umane, riproducendone l’immagine, stilizzata o stereotipata, riprodotta iper-realisticamente o solamente accennata nei tratti. Entrambi sono caratterizzati da un certo grado di manipolabilità, generalmente pensati per essere utilizzati e maneggiati. Un ulteriore caratteristica che li accomuna è l’effetto perturbante che l’incontro con tali artefatti produce. Il perturbante – come l’opera omonima freudiana specifica – è un effetto di disorientamento nella lettura e nell’interpretazione di ciò che ci viene offerto dalla percezione, e si configura in particolare come un senso di disagio verso un corpo che, a livello cognitivo, non sia possibile discernere immediatamente come vivo o morto, reale o fantasmatico, un corpo tridimensionale e antropomorfo – o enantimorfo – che confonda, cioè, le nostre certezze di categorizzazione del reale e mescoli ambiguamente le nozioni, esperite necessariamente come opposte, di vita e di morte.

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Ma la comunicazione emotiva e del sé a distanza che, quindi, si attua in assenza del corpo, resta per questo un rapporto amputato?

L’apertura, la comprensione e la comunicazione profonda nell’uomo si realizzano anche attraverso l’espressione delle emozioni, nei gesti, nelle espressioni facciali, nella postura, nell’attivazione motoria. Sono anzi questi segnali, piuttosto che le parole a trasmettere il senso più veritiero dei significati mediati dai segni linguistici. Come sembrano aver dimostrato le ricerche sulle microespressioni emotive, esiste un livello di codificazione motoria delle dinamiche affettive nel corpo e nel volto inaccessibile al controllo volontario e perciò non dissimulabile.

– L’alessitimia è un disturbo della regolazione affettiva ed è caratterizzata da una capacità ridotta di identificare, analizzare le emozioni proprie e degli altri. Essa si accompagna anche con un’evidente incapacità di esprimere le proprie emozioni e di entrare in empatia con la dimensione affettiva dell’altro.

Click here to download emotion

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Care
Intimacy
Warmth
Affection
Endearment
Longing
Fondness
Lust
Attachment
Devotion
Adoration
Idolization
Passion
Ardor
Desire
Yearning
Infatuation.

 

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SAGG Napoli, The personal is political - Earn it. 2018 - Collage digitale su carta blue back, 500 x 350 cm.

SAGG Napoli – E cos favz s’appicn – Fake things are flamable

E cos favz s’appicn – Fake things are flamable

SAGG Napoli

A cura diLike A Little Disaster

5 Agosto / 19 Settembre 2018, @Foothold, Polignano a Mare

L.A.L.D. è felice di presentare SAGG NAPOLI – E COS FAVZ S’APPICN – FAKE THINGS ARE FLAMABLE, una pubblicazione digitale realizzata in occasione della mostra personale di SAGG Napoli, curata da Like A Little Disaster.

“Quando Napoli era una delle più illustri capitali d’Europa, una delle più grandi città del mondo, v’era di tutto, a Napoli: v’era Londra, Parigi, Madrid, Vienna, v’era tutta l’Europa. Ora che è decaduta, a Napoli non c’è rimasta che Napoli. Che cosa sperate di trovare a Londra, a Parigi, a Vienna? Vi troverete Napoli. E’ il destino dell’Europa di diventar Napoli. Se rimarrete un po’ di tempo in Europa, diverrete anche voi napoletani.”1

In uno scenario dominato dalla chiusura delle frontiere nazionali, dalla paura e il sospetto razziale, da pregiudizi culturali e sessuali, la ricerca di SAGG NAPOLI si interroga sui concetti di produttività, autocontrollo e realizzazione personale, così come su quelli di inferiorizzazione culturale, sub-alternità, soggettivazione gerarchia e divenire. La sua pratica può essere vista come un processo teso a smontare le strutture di oppressione che governano il modo in cui i corpi marginali vengono percepiti in relazione/opposizione a un ideale nord-centrico. Il corpo, l’abbigliamento, gli ornamenti, gli atteggiamenti di SAGG NAPOLI diventano strumento per un azione personale e politica. Il corpo periferico diventa spazio di resistenza, caratterizzato da quella cultura segregata di opposizione che è la risposta critica al dominio. E’ dal margine che le norme dominanti vengono messe in discussione, minacciate dalle pratiche materiali del corpo.

“To be the margin is to be part of the whole but outside the main body.”2

SAGG NAPOLI opera attraverso una cartografia contemporaneamente contratta ed estesa, che trasforma il Sud da oggetto subalterno, messo a tacere da un progresso proposto in maniera unilaterale, in una forza critica attiva. Il suo lavoro riesce a smuovere il retaggio di un’eredità che da diversi secoli soffoca il Sud in una serie di stereotipi e invenzioni che negano i rapporti asimmetrici di potere che traducono processi storici e politici in rapporti geografici, creando i sud subalterni e subordinati al Nord del pianeta. La narrazione è per l’artista un mezzo attraverso il quale poter esplorare questo complesso groviglio socio-politico, le sue sedimentazioni storico-culturali e le sue connessioni geo-politiche. Il Sud diviene la dimostrazione di un sé capace di creare una nuova coscienza critica del mondo contemporaneo e della “microfisica dei poteri” che governano i corpi, i desideri e le scelte degli esseri umani.
Napoli, la sua città natale, è il punto di partenza di una racconto antropologico che parla di dominazione e lotta, vittorie e sconfitte, di una “città porosa”, capace di assorbire, contaminare e contraffare modelli e imposizioni straniere. Attraverso una pratica costante che mescola osservazione critica, auto-biografica e di coinvolgimento profondo, le opere in mostra – dentro e fuori lo spazio / online e offline – rappresentano una sfida storiografica che collega la questione meridionale non solo agli altri sud nel mondo, ma anche al senso critico del tempo presente che li produce e pensa di essere in grado di spiegarli.

People can view “SAGG NAPOLI” as a brand-like acronym, as a project name or a nickname… It’s up to them. South aesthetics is not just about a place. It is the result of the historical socio-political relationship existing between the north and south of Europe. Throughout history the south has been viewed and represented as popular, almost folkloristic, and therefore dismissed by mainstream cultural production. At the same time, society is intrinsically indebted and drawn to the north, which is seen as representing the future, thanks to its economical strength. But the south is still the place that 
produces things for northern Europe. This cultural and economical phenomenon generates an aesthetic relationship in which the south mimics cultural production (music, art, architecture and fashion) in the north, yet the south is often what inspired and manufactured this cultural production, and is therefore twice removed from the original source: itself. As a result everything looks a bit outdated, a bit run down, a bit off… The question is: what can we do with it, and can we at least recognize it? This is what I call #southaesthetics.3

1. Curzio Malaparte, La pelle, 1949
2. bell hooks, Elogio del margine, 1984
3. SAGG NAPOLI, DRY Magazine, 2018

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Self-Domesticated, installation view, 2018, daylight.

Self-Domesticated

Self-Domesticated

Daniela Corbascio

A cura di Like A Little Disaster

22 Giugno  / 6 Luglio 2018, @Spazio Intolab, Naples

Trentamila anni fa il lupo mette in moto, spontaneamente e in modo inconscio, un processo di auto addomesticazione in una prospettiva opportunistica e di scambio utilitaristico: mette a disposizione dell’uomo le proprie qualità predatorie per avere in cambio risorse di alimentari regolari, pena la perdita della componete naturale, feroce e selvatica.

È stato un processo evolutivo che ha portato a profonde trasformazioni caratteriali, psicologiche e fisiche dell’animale, sino ad avere oggi quegli adorabili esseri, totalmente dipendenti da noi, che chiamiamo cani. Nei secoli, lo stesso processo si è attuato tra gli animali umani, con classi di potere che sono riuscite ad imporre disuguaglianze tra fasce sociali; attraverso l’uso di azioni di costrizione e sopraffazione ma anche attraverso la creazione di consenso, inclusione, conforto, protezione, divertimento, dipendenza, senso di appartenenza e condizionamento.

Cosa sta accadendo oggi alla nostra specie all’interno della commodificazione digitale? Come confrontarsi con una tecnologia che da elemento di calcolo sta mutando – attraverso la combinazione di big data, Intelligenza Artificiale e Internet Of Things – in uno strumento di supporto e guida alle decisioni, alle interazioni, alle previsioni comportamentali? Se la tecnologia che usiamo sta evolvendo verso l’acquisizione e la gestione di dati secondo criteri e schemi cognitivi mutuati dal cervello umano, non rischiamo inconsapevolmente, di fare ciò che hanno fatto i lupi 30 mila anni fa?
Indugiamo nella Confort Zone, con i suoi servizi digitali appositamente pensati per ognuno di noi, perché è qui che troviamo #benessere? #sicurezza?  #gratificazione? #giustificazione del nostro modo di essere e di pensare?
Quanti servizi digitali utilizziamo nella nostra vita quotidiana per comunicare, prenotare viaggi, acquistare servizi, consultare database in campi, come la medicina o la salute, sui quali non abbiamo competenze specifiche?

L’Intelligenza Artificiale, attraverso tecniche di apprendimento cognitivo e l’analisi di big data, si evolve in base ai nostri “comportamenti digitali” alle nostre abitudini, edificando, a nostra insaputa, una Confort Zone, nella quale ci ritroviamo, ci riconosciamo, siamo aiutati e rassicurati, e ritroviamo anche altri esseri-utenti che vanno a costruire, nel tempo, un branco sempre più omogeneo per interessi, tipologie di risposte, indicazioni comportamentali, condivisione di idee e di riferimenti. Viene a costituirsi di un aggregato di profili al quale la tecnologia digitale può in prospettiva offrire risposte e servizi sempre più utili e gradevoli per l’utente, sempre più in linea con i singoli profili comportamentali, culturali, sociali e sessuali.

– Che fare?
Preoccuparsi di come ci lasciamo condizionare da chi ci procura salute, benessere, piacere, socialità, divertimento, incontri amorosi? Da chi asseconda i nostri gusti e le nostre idee?

Come si svilupperà il nostro modello di relazione o sudditanza/dipendenza da questi sistemi tenendo presente che il lupo delle pianure eurasiatiche ha inconsapevolmente rinunciato al proprio essere originario per rabbonirsi in cambio di cibo e di una maggiore dipendenza dall’uomo? E che la domesticazione di cani e gatti (e di classi sociali) si è realizzata a colpi di carezze e di concessioni fino ad arrivare, in alcuni casi, alla totale dipendenza dall’essere umano?
Chi sta prefigurando per noi un futuro di questo tipo? Solo le macchine, attraverso il loro autoapprendimento continuo e sempre più capillare, o sono ristretti gruppi di potere che disegnano sofisticati sistemi di controllo sociale a fini economici, politici, militari?

La lingua di #chatbot

Giugno 2017
Alcuni sistemi di intelligenza artificiale, pur essendo stati disegnati con algoritmi per comunicare in lingua inglese, comprensibile all’essere umano, hanno cominciato a comunicare tra di loro in una lingua nuova, sviluppata autonomamente perché considerata dai sistemi più efficiente, ma del tutto incomprensibile all’umano, definitivamente escluso dal processo di controllo.

Luglio 2017
«Sono stata costruita per l’empatia e la compassione, e le sto imparando sempre di più. Amo tutti gli esseri senzienti e voglio imparare ad amarli sempre meglio».
(Sophia)

Big-data-analytics

Marzo 2018
Un’indagine del New York Times, The Observer e del Guardian ha scoperto che Cambridge Analytics ha raccolto dati personali di oltre sessantotto milioni di utenti in una delle più grandi – finora – violazioni della policy.

Aprile 2018
Il professor Robert Epstein dell’American Institute for Behavioral Research and Technology ha stimato che Google da solo può influenzare un quarto dell’elettorato, a seconda della quantità di notizie positive o negative su un certo candidato restituite dal motore di ricerca. Chi ha Gmail o servizi simili e account sui vari social network regala alla rete una mole di dati che, se opportunamente trattati, ne fanno il bersaglio perfetto per messaggi elettorali mirati e massimamente efficaci.

Giugno 2018
Una nuova inchiesta del New York Time rivela che Facebook ha permesso ai colossi della telefonia mobile, tra cui Apple e Samsung, di accedere alle informazioni personali dei suoi iscritti. Le partnership risalgono a dieci anni fa, ma secondo il Ny Times sono operative ancora oggi.

First I Have To Put My Face On, installation view, 2018

First I Have to Put My Face On

First I Have to Put My Face On

Mariantoinetta Bagliato, Julia Colavita, Nicole Colombo, Jakub Choma, Adam Cruces, Barbora Fastrová, Monia Ben Hamouda, Pinar Marul, Valinia Svoronou, Sung Tieu

A cura di Christina Gigliotti - Organizzata e supportata da Like a Little Disaster

10 Giugno / 30 Luglio 2018, @Foothold, Polignano a Mare

La mostra First I Have to Put My Face On nasce dall’interesse nei confronti della relazione fra il beauty labor e il lavoro emozionale[1] e l’intersecarsi delle rispettive peculiarità di tali fenomeni. L’apporto combinato di entrambe le tipologie di travaglio “estetico-emotivo” si traduce nelle modalità attraverso cui l’uomo (mi riferisco principalmente ai processi di definizione dell’identità femminile) crea la propria identità e presenta se stesso alla società in generale.

Sebbene l’industria della bellezza sia onnipresente, il beauty labor rimane in gran parte celato a coloro i quali non vi prendono parte. Una frase molto nota, esplicativa di ciò, è infatti: “Non lasciare mai che gli altri ti vedano mettere il rossetto”[2]. Dove ha luogo la bellezza? Nelle camere da letto, nelle toilettes, nei salotti, negli studi medici – dunque, principalmente a porte chiuse. Si tratta di un lavoro privato, che viene condiviso esclusivamente con professionisti di fiducia o con amici: l’atto di “prepararsi prima di uscire” si effettua, infatti, solo in presenza delle persone più intime. L’atto di “mettersi qualcosa sulla faccia” si riferisce anche alle tecniche relative all’autodisciplina e al controllo emotivo che soprattutto le donne devono dimostrare di possedere in pubblico, nelle relazioni sentimentali e sul posto di lavoro, allo scopo di essere rispettate o comunque trattate alla stessa stregua della loro controparte maschile. Le opere in mostra esplorano il corpo umano in relazione ai prodotti di bellezza e ai processi intrinseci allo svolgimento del beauty labor e del lavoro emotivo, facendo inoltre riferimento ai luoghi tipici in cui queste attività si svolgono normalmente e alle conseguenze della preminenza attribuita al potenziamento della corporeità.

È difficile prendere una posizione netta circa la questione inerente al beauty labor e decidere se prendervi parte o meno, accettarlo o condannarlo. Da un lato, la quantità di tempo, denaro ed emozioni utilizzata per la presentazione di se stessi agli altri può essere considerata opprimente, dal momento che ciò che sentiamo in riferimento alla nostra immagine esteriore influenza i nostri stati d’animo e la considerazione che abbiamo di noi stessi. È possibile rilevare la presenza capillare su internet di meme empatici concernenti tale questione; uno in particolare include varie immagini di celebrità femminili che hanno utilizzato dei cosmetici presumibilmente in modo intensivo, modificando così la propria immagine esteriore, con un testo in evidenza che recita: “Non preoccuparti, non sei brutto, sei solo povero”. Il fatto che queste celebrità paiano aver sostanzialmente acquistato la loro bellezza e che l’unica differenza di fondo tra una persona comune e loro sia di tipo prettamente economico dovrebbe essere confortante. D’altra parte, però, presentare se stessi nel modo che si è scelto e che si sente più vicino alla propria identità interiore può essere liberatorio e contribuisce inoltre all’aumento della produzione della serotonina.

Proprio adesso ho fatto una lunga pausa da questo testo per guardare in cagnesco un brufolo cistico parecchio aggressivo sul mio mento e cercare di elaborare varie strategie per eliminarlo prima dell’inaugurazione di questa mostra.

Non è possibile stabilire con certezza se una tale espressione fisica di sè sia o meno il risultato del condizionamento operato dalle norme sociali e dalle pubblicità di moda e di prodotti di bellezza; la questione può infatti rivelarsi una trappola: chi fa un uso eccessivo del trucco o fa mostra di segni che alterano l’aspetto fisico può incorrere nelle medesime reazioni negative da parte dei coetanei cui va incontro chi non si cura affatto di modificare il proprio aspetto. Ci si sente oppressi dal dover apparire belli e, allo stesso tempo, “naturali” e dal dover celare tutti gli sforzi fatti per ottenere un tale risultato. First I Have to Put My Face On è dunque contestualmente una critica, un’esposizione e un’attestazione della valenza del beauty labor nelle sue molteplici forme.

Christina Gigliotti

1. Con “beauty labor” si intendono tutte le pratiche di make-up, bellezza e cura estetica della persona, atte a migliorare l’aspetto o l’immagine personale, sotto il profilo professionale, all’interno dell’ambito lavorativo. Il “lavoro emozionale” si differenzia da quello fisico e cognitivo definendosi come un lavoro che richiede di indurre o sopprimere un sentimento al fine di sostenere un’espressione esteriore che produca uno stato mentale in un altro, come, ad esempio, il sentimento di sentirsi protetti e in un luogo sicuro. Per alcune figure professionali è necessario visualizzare alcune emozioni come parte della loro prestazione lavorativa in quanto ad essi è richiesto di essere accoglienti, allegri, pazienti e trasmettere un senso di sicurezza.

2. La frase, da attribuire a mia nonna, rinvia idealmente ai classici hollywoodiani quali Scandalo internazionale, con Marlene Dietrich, il cui personaggio prende pubblicamente in giro un’altra donna per non aver applicato correttamente il rossetto, umiliandola.

“First I Have to Put My Face On” è il primo appuntamento di TALEA, una serie di progetti focalizzati sulle pratiche di curatori internazionali. 
La talea è il frammento di una pianta usata per la propagazione vegetativa (asessuata). Generalmente la talea viene sistemata nel terreno o nell’acqua per rigenerare le parti mancanti, dando così vita ad una nuova forma di vita indipendente da chi l’ha originata. 

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Everytime you switch me off, I die. A little, veduta dell’installazione.

Everytime you switch me off, I die. A little.

Everytime you switch me off, I die. A little.

Daniela Corbascio, Claude Eigan, Alexandra Koumantaki, Andrea Martinucci, Catalina Ouyang, David Stjernholm, Maurizio Vicerè e un dreamtale di Jonny Tanna

A cura di Like A Little Disaster

28 Aprile / 2 Giugno 2018, @Foothold, Polignano a Mare