Controra Ep. I

Controra Ep. I

Luca Francesconi, Jon Rafman, Sara Sadik, Amalia Ulman

A cura di Like A Little Disaster

7 Giugno / 25 Luglio 2022 @Palazzo San Giuseppe and Chiesa di San Giuseppe, Polignano a Mare

La “controra” è uno spazio-tempo sospeso nel primo pomeriggio assolato del Sud Italia.
È quel momento della giornata in cui il sole proietta la sua ombra dritta e il corpo scompare lasciando spazio alla poesia, alla mitologia e alla paura dei demoni meridiani.
Sono le ore grevi dedicate ai sogni e agli incubi, alle allucinazioni e alle “fatamorgana”, le ore dell’indolenza inoperosa, esperenziata e performata come dissidenza anarchica rispetto all’efficienza del flusso produttivo dettata dal crono-capitalismo.

Ci si deve astenere dal frequentare luoghi pubblici ed è opportuno esiliarsi in casa propria, le imposte chiuse, in penombra e in silenzio. Si può sonnecchiare o dormire, ma non è la sola attività prevista; anzi, pensare, leggere anche poche pagine e meditare su ciò che si è letto, prendere qualche appunto… amarsi e dedicarsi all’ozio attivo. La controra è un ossimoro, dove l’otium propone un’inversione riflessiva al corso dei nostri pensieri.

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LUCA FRANCESCONI

Nel suo lavoro Luca Francesconi analizza i legami tra uomo e natura, spazio e tempo, le opere d’arte ed i materiali, così come le dinamiche nello spazio espositivo. Ha spesso preso come punto di partenza riferimenti primordiali come fiumi, cicli lunari, i campi e l’agricoltura. Nelle sue mostre questi temi divengono pietra angolare, concreta e simbolica, di un gruppo di opere che coinvolgono esplorazioni spaziali, la fisica e le sue relazioni con il tempo. Lo stesso display espositivo, come oggetto estetico, è una componente centrale delle sue speculazioni.
Attraverso la sua ricerca Francesconi esamina i processi naturali presenti nella filiera e sistema produttivo del cibo, la sua distribuzione, la sua consumazione e le implicazioni umane che essa comporta. Il tema della trasformazione (naturale), come la decomposizione, i vari processi di fermentazione e il loro valore simbolico, servono come punto di partenza per esaminare i modi di produzione e consumo contemporanei. Legato al mezzo della scultura e dell’installazione scultorea, Francesconi riunisce vari tipi di elementi naturali, che fanno eco agli aspetti formali e al funzionamento del corpo umano, sottolineando al contempo il nostro rapporto in dissolvenza con la natura e i suoi ecosistemi. Proponendo nuove alternative di produzione e consumo sostenibili dal punto di vista ambientale, Francesconi mira a rianimare il nostro rapporto con la terra e l’ambiente in generale.

Il gruppo di sculture in mostra (cinque “Cafoni” e il “Capurale”) è composto da figure antropomorfe stilizzate in acciaio inox lavorato artigianalmente e con la testa di ortaggio intercambiabile. Questi braccianti sono inseriti in una realtà temporale e produttiva in cui si è persa l’identità professionale e personale, quindi anche il corpo perde forma e sostanza per trasformarsi in un semplice strumento atto alla produzione su larga scala.
Le sculture indagano il confine tra essenzialità e sovrapproduzione, tra un mondo in cui il rapporto uomo – natura era ancora 1 a 1, quando ciò che governava era la ciclicità delle leggi naturali a cui l’uomo si adattava per una produzione destinata al semplice sostentamento, senza intaccare gli equilibri della catena alimentare, e quello della contemporaneità, un tempo di asettiche eccedenze monodirezionali.

 

JON RAFMAN

Jon Rafman (*1981) è acclamato globalmente per un’opera poliedrica che comprende video, animazione, fotografia, scultura e installazione. Le sue opere quasi antropologiche, che spesso incorporano immagini e materiale narrativo provenienti da Internet, indagano sulle tecnologie digitali e sulle comunità che le creano, concentrandosi sulle perdite, i desideri e le fantasie che modellano le nostre vite infuse di tecnologia. L’artista di Montreal rivolge uno sguardo empatico ma critico all’era di Internet, indagando su esperienze di alienazione, nostalgia, solitudine e dolore.
La sua complessa interpretazione delle tecnologie Internet è implicita anche nei suoi primi lavori. The Nine Eyes of Google Street View (2007-oggi), una raccolta in continua crescita di immagini fotografiche e un sito Web costantemente aggiornato, lo vede frugare tra immagini insolite prelevate dalla funzionalità di visualizzazione stradale panoramica di Google Maps. Come un flâneur cibernetico si imbatte in momenti sorprendenti di umanità, vulnerabilità e talvolta bellezza; le sue scoperte includono immagini di bambini che giocano in quartieri fatiscenti, cavalli e renne che vagano per le strade, paesaggi poetici, prostitute che brontolano e arresti della polizia. Mostrando queste immagini acquisite automaticamente sotto una nuova luce, Rafman rivela la grammatica visiva e i punti ciechi della tecnologia di Google.

Molti dei video successivi di Rafman esplorano aspetti meno noti del mondo digitale. Un esempio calzante è Codes of Honor (2011), una breve docu-fiction che combina filmati reali con immagini della piattaforma online Second Life per raccontare la vita di un videogiocatore. Un’altra è la trilogia di saggi cinematografici composta da Still Life (Betamale) (2013), Mainsqueeze (2014) ed ERYSICHTON (2015), uno studio visivo su diverse nicchie di cultura Internet tra cui cosplayer, appassionati di pornografia hentai o persone che perseguono oscuri feticci sessuali.
Non tutte le opere dell’artista utilizzano immagini trovate. Gli oggetti a forma di busto della sua serie New Age Demanded (2012-oggi) evocano sculture moderne classiche, benché realizzati utilizzando tecniche e tecnologie di imaging digitale tra cui la stampa 3D o l’intaglio basato su modelli 3D. Una serie di fotografie su larga scala intitolata You Are Standing in an Open Field (2015) contrappone sudicie tastiere di computer e scrivanie piene di spazzatura a sfondi di paesaggi pastorali. Sticky Drama (2015), un cortometraggio sulla perdita dei ricordi archiviati digitalmente, è il primo film live-action di Rafman.
Molte delle opere più recenti dell’artista utilizzano l’animazione 3D. Gli esempi includono il suo Dream Journal 2016–2019, per il quale Rafman documenta i suoi sogni quotidiani prima di mescolarli con narrazioni trovate nella mitologia, nei videogiochi e nelle serie TV. I video-saggi animati Legendary Reality (2017), SHADOWBANNED (2018) e Disasters under the Sun (2019) offrono uno sguardo preoccupato sull’attuale condizione umana con un linguaggio visivo che ricorda i film di fantascienza.

I film e i video di Rafman sono spesso impostati su colonne sonore di musica elettronica sperimentale ipnotica di artisti tra cui Oneohtrix Point Never o James Ferraro. Sebbene siano disponibili online, sono sperimentati in modo più efficace all’interno di dimensioni scultoree appositamente progettate. Queste installazioni enfaticamente fisiche spingono gli spettatori in cabine, li trasportano nella camera da letto di un tipico adolescente nordamericano, li invitano a sdraiarsi su sedili in schiuma di poliuretano o in pozze di palline di plastica.
Tutte le opere di Jon Rafman esplorano le vicissitudini dell’autoformazione nell’era digitale. Si chiedono cosa significhi vivere in un’epoca in cui le tecnologie strutturano ogni nostra ora di veglia, o in cui il prezzo di un facile appagamento dei nostri bisogni è la solitudine davanti allo schermo di un computer. Esplorano l’esperienza onnipresente di vivere in un mondo in cui nulla è permanente, ma nulla è dimenticato.

Poor Magic (2017)
Disasters Under the Sun (2019)

Jon Rafman mette in scena mondi distopici generati dal computer in cui l’orrore è diventato parte della vita di tutti i giorni.
Disasters Under the Sun (2019) e Poor Magic (2017), che nella mente di Rafman formano un dittico, risuonano in modi inquietanti e spaventosi con l’attuale crisi che stiamo vivendo. Il primo, presentato alla Biennale di Venezia nel 2019, è stato recentemente acquisito dal MAC (Musée d’Art Contemporain de Montréal). Entrambi i film hanno un tono più cupo rispetto ai suoi primi lavori, scavando negli angoli più oscuri del Web. Mentre le sue installazioni, fotografie e video degli ultimi anni proponevano una visione malinconica e ironica delle convenzioni sociali e delle comunità virtuali, questi due lavori offrono una prospettiva più critica. I film ritraggono una distopia post-umana con avatar 3-D senza volto e privi di emozioni, controllati da forze esterne, completamente alla mercé dell’arbitrarietà continuamente torturati in uno spazio digitale astratto. In quello che è essenzialmente un lamento poetico, Rafman affronta la coscienza frammentata di un’esistenza post-fisica e smaterializzata intrappolata in un mondo postindustriale. I film mostrano un’immagine terrificante di un futuro in cui tutta l’umanità viene caricata in un purgatorio virtuale e abusata all’infinito. O è anche una rappresentazione brutale del momento presente e dell’effetto che un mondo dominato da algoritmi ha sulla nostra carne e sulla nostra psiche?

Rafman ci mostra l’alienazione che separa le persone attraverso mezzi digitali e tecnologici e dissolve ogni senso di comunità. In contrasto con le visioni utopiche del futuro che hanno caratterizzato la prima modernità, Rafman progetta scenari post-umani in cui le persone esistono solo come avatar digitali. Dimostra gli effetti dannosi che un mondo governato da algoritmi ha sul corpo e sulla mente.

Poor Magic e Disaster Under the Sun rappresentano una resa bellissima ma terrificante della coscienza contemporanea, indicando la deriva svogliata della civiltà oltre il corporeo e l’infinito desiderio della tecnologia di penetrare e replicare artificialmente l’essenza umana. Le simulazioni di folla generate al computer corrono frenetiche in una ripetizione onirica, mentre un viaggio endoscopico in 3D ci porta attraverso i passaggi più intimi del corpo.

 

SARA SADIK

Attraverso narrazioni fittizie filmate o interpretate, che vanno dai documentari alla fantascienza fino ai reality tv e l’uso massiccio di chromakey, modulazioni 3D e altre tecniche di post-produzione CGI, Sara Sadik affronta questioni legate all’adolescenza e alla mascolinità, documentandone i misteri e decostruendone le mitologie sociali.
Il lavoro di Sara Sadik è radicato in ciò che lei designa con il termine “beurcore”: l’essenza della cultura giovanile dei francesi della classe operaia appartenenti alla diaspora magrebina, di cui cattura e analizza le specificità per tradurle in concetti visivi e materici. Il suo lavoro unisce video, performance, installazione e fotografia, per esplorare le manifestazioni del beurcore, mentre i suoi riferimenti abbracciano musica, linguaggio, moda, social network e fantascienza. Partendo dall’analisi semiologica e sociologica della “beurness”, Sadik attua un processo di dirottamento di questi cliché sociali decostruendoli e reintegrandoli nelle finzioni. Sadik reimpiega, riconnette e ri-problematizza i simboli sociali e l’estetica visiva, i sistemi economici e i linguaggi utilizzati e/o creati da questa comunità, al fine di creare situazioni immaginarie e surreali che si svolgono nel presente o nel prossimo futuro.
Anche se radicate in una prospettiva locale, le sue sceneggiature, i suoi film e le sue interpretazioni affrontano questioni più ampie, come la politica delle identità e dei comportamenti che mancano di rappresentazione mediatica. Attraverso le sue immagini generate al computer e i riferimenti ludici a oggetti della cultura popolare conteporanea tra cui Capri-Sun, Dragon Ball e abbigliamento Kalenji, Sadik costruisce i suoi scenari immaginari, eludendo il colonialismo che ha usurpato territori fisici e virtuali.
Grazie all’uso tattico delle nuove tecnologie e dei social media, Sadik riesce a creare nuovi spazi per rappresentazioni più eque.

Khtobtogone, 2021, 16′
Esplorando le possibilità di utilizzare la modalità cinema del videogioco Grand Theft Auto V, noto per la sua violenza, misoginia e razzismo, Khtobtogone (2021) descrive la vita quotidiana dei giovani membri della classe operaia franco-maghrebina e le loro montagne russe emotive e politiche. La narrazione del film si svolge a Marsiglia e racconta la storia d’amore tra il protagonista Zine e la ragazza dei suoi sogni, Bulma. Ma nella narrazione introspettiva, Zine riflette in modo più ampio sulle aspettative agonizzanti e contraddittorie che modellano il suo futuro, sulle battaglie e le lotte che ha dovuto affrontare per ritrovare la fiducia in se stesso e l’amore per se stesso, così come sul raggiungimento della maggiore età nella comunità magrebina di Marsiglia. Il racconto di Zine realizzato da Sadik è attento alle tensioni esercitate dalle norme razziali, di classe e di genere e al modo in cui queste norme differiscono contestualmente. L’amore che Zine prova per i suoi amici maschi è incompatibile con l’amore che prova per Bulma, anche se le parole che usa per descrivere i suoi sentimenti per loro non sono dissimili in ogni caso.

La grafica di Grand Theft Auto V ha una qualità impersonale che fa sembrare trasferibile la vulnerabilità di Zine ad altre identità/identificazioni, nonostante la specificità del linguaggio, i marcatori culturali e le sue relazioni personali. I lievi difetti nelle immagini ignorano il comportamento ipermascolino e la violenza machista tipiche delle narrazioni di GTA, poiché Zine passa ore in lacrime per il crepacuore, per il suo desiderando essere visto dagli altri in una luce positiva e l’imperativo di essere migliore, e diventare “la migliore versione di me stesso”.

Khtobtogone è un film emotivo, che utilizza una tecnologia futuristica come vettore per visualizzare le reali lotte e i sogni di un ragazzo che si configura come un prototipo con una voce intima capace di immergerci nelle introspezioni e nelle tensioni emotive quotidiane che deve affrontare.

Zine va in palestra, ma si sente un corpo senza cuore “A volte ho l’impressione di essere solo un corpo, un corpo vuoto, disumanizzato. Un corpo che non ha diritto di sentire, che esiste solo per vivere in silenzio”. Dietro la sua corporatura massiccia, vestita con una tuta firmata e una marsupio alla moda, c’è una ragazzo emotivo che cerca di “diventare un uomo”. Zine è pieno d’amore – per i suoi amici e per la sua donna – ma è afflitto dai demoni interiori e dalla sua paura di non avere uno scopo nella vita. Mentre consegna il cibo sulla sua moto, Zine finge di essere nel gioco GTA, mentre sfreccia attraverso lo splendido scenario costiero, ma gli sguardi e i commenti condiscendenti dei clienti lo abbattono. Attraverso il suo ritratto sensibile e le giustapposizioni fantasiose, Sadik descrive parallelamente e in modo avvincente le difficoltà e le problematiche della mascolinità contemporanea e offre un’analisi acuta ma al contempo empatica delle pressioni sociali e del fardello delle aspettative sulle spalle dei giovani adulti in una società post-migrante.

 

AMALIA ULMAN

Amalia Ulman è un’artista di origine argentina che vive e lavora a Los Angeles. Nel 2014 ha scosso la community IT Girl di Instagram. Il suo account Instagram meticolosamente curato che descriveva dettagliatamente la sua scialba ma sempre più travagliata vita da fashionista, si è rivelata una bufala, perpetuata per il bene della sua serie performativa “Excellences and Perfections”.

*The Future Ahead, Improvements for the further Masculinization of Prepubescent Boys*, 2014

The Future Ahead, che potrebbe essere descritto come una video-lezione-lecture performativa, approfondisce questioni che riguardano la rappresentazione (fem)maschile e la sessualità mediata digitalmente nella cultura pop contemporanea e nei social media.
Il lavoro, simile ad altri video saggi dell’artista, utilizza il formato di presentazione powerpoint per creare un collage di found footage (tra cui le immagini dal blog ironico LESBIANS WHO LOOK LIKE JUSTIN BIEBER), gif animate ed effetti sonori economici. Raccontando una storia di fantasia sul protagonista Justin Bieber con una voce eccessivamente sessualizzata e infantilizzata utilizzando dati medici falsi, il video esplora le tendenze online polarizzanti prevalenti nel 2014, quando i ragazzi hanno iniziato ad accentuare le linee della fronte sui social media. Le ragazze adolescenti, d’altra parte, ricevevano botox per prevenire le rughe sulla fronte anche prima della loro comparsa. Assurdo dall’inizio alla fine, The Future Ahead è un ottovolante di voci, umorismo da ufficio e teorie del complotto sui ruoli di genere e la chirurgia plastica.

The Future Ahead, si concentra sul raggiungimento della maggiore età di Justin Bieber come celebrità dei social media. In risposta alla fissazione culturale sull’aspetto angelico di Bieber da bambino e una diminuzione della sua rilevanza durante la pubertà, Ulman propone che quando Bieber aveva circa 17 anni abbia sviluppato un’espressione chiamata “Office Blind Pose”, in cui alza le sopracciglia in modo che la sua fronte ricordando le tende veneziane. Queste rughe sul suo viso da bambino proiettano un’aria di maturità, che Ulman collega alla costruzione sociale della mascolinità, contrastando un meme crudo all’epoca in cui Bieber era segretamente lesbica. La strategia OBP sembra una battuta finale fino a quando Ulman non compila alcune dozzine di foto di Bieber che fa questa faccia – che, va detto, sembra ridicola – insieme a clip di vlogger adolescenti che la imitano. Ulman li sfoglia uno per uno in un tipo di analisi ossessiva e ironica che di solito non è diretta verso uomini cis che si presentano maschili (come richiama la GIF virale di Paris Hilton che fa la stessa faccia in dozzine di fotografie).

La “distruzione dell’esperienza” descritta nella lecture – interventi di chirurgia plastica volti ad appianare le rughe sui volti delle donne, l’opposto della traiettoria di Bieber – è anche un complemento clinico agli onnipresenti promemoria dell'”orologio biologico”. Ulman non condanna riduttivamente queste procedure; invece, sottolinea come siano parte di un’industria costruita su aspettative culturali profondamente radicate. Fa perno su una tradizione più ampia di combattere chirurgicamente la normatività di genere citando Genesis P-Orridge: “I corpi sono solo una valigia economica per la coscienza”. Ma questo ideale post-ideologico si scontra con quanto le norme siano pesantemente sostenute da una cultura basata sull’immagine, anche quando si modella un nuovo sé. “Possiamo giudicare Justin per essersi adattato alla costruzione socioculturale del genere?” chiede Ulman, come se cercasse una via d’uscita. Non è impossibile, ma il primo passo è riconoscere la radice della questione.

Amalia Ulman studia le questioni riguardanti l’identità di genere in un’opera basata sulla commozione online che circonda la presunta transizione di genere di Justin Bieber. Un’affascinante ricerca sull’influenza di Internet sulla percezione della mascolinità nella società contemporanea. Uno studio che mette in discussione la mascolinità della pop star e affronta la finzione della biofemminilità.

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