Body snatchers (The House)
Jaana-Kristiina Alakoski, Benni Bosetto, Reilly Davidson, Giulia Essyad, Adham Faramawy, Cleo Fariselli, Chiara Fumai, Jason Gomez, Ellie Hunter, Uffe Isolotto, Gregory Kalliche, Lito Kattou, Lucia Leuci, Aniara Omann, Catherine Parsonage, REPLICA, Giuliana Rosso, Namsal Siedlecki, Oda Iselin Sønderland, Federico Tosi, Bruno Zhu
A cura di Like A Little Disaster e PANE Project
10 Maggio / 30 Giugno 2019 @Foothold, Polignano a Mare
L’accesso in galleria sarà consentito ad una sola persona per volta. La mostra sarà fruibile esclusivamente in totale isolamento, la galleria non avrà personale e non sarà permessa alcuna interazione fisica umana. L’esperienza della mostra si trasforma così da evento sociale e mondano a dimensione privata in cui visione diventa uno spazio per l’autoriflessione.
Mostruoso, abnorme, deforme, ibrido, soprannaturale; segno inviato dagli dèi, presagio – secondo l’etimologia greca (τέρας); ammonimento (mŏnēre) e mostrazione (monstrāre) della condotta da seguire, nell’accezione latina (monstrum), ma anche prodigio, fatto eccezionale che si dà e, in certo senso, si impone in quanto eccezione, costringendo a una messa in questione di ciò che costituisce, per converso, l’ordinario.
Nella tarda antichità e in epoca medievale, la mostruosità diviene, da prodigio, un problema di storia naturale, evolvendosi nel senso del fantastico e giungendo fino alla prospettiva fantascientifica e horror della contemporaneità, che delinea l’esistenza di forme di vita aliene e cyborg. La storia del termine “mostro” e della costellazione di significati che da esso si ramifica attraverso il susseguirsi di epoche storiche fino a giungere a quella attuale in cui, recepita la connotazione morale, si assiste anche alla mostrificazione di oggetti, individui, gruppi, eventi. Il concetto di diversità assume generalmente una valenza autosanzionatoria; corpi diversi dalla norma(lità), che deviando da standard impossibili, strutturano modalità alternative del darsi della corporeità, divengono per ciò stesso infrazione. Il divieto si radicalizza nella sua pervasività valicando i confini dell’antinomia inerente al corpo normale e al corpo anormale, mostruoso, grottesco, investendo nella loro interezza la corporeità e la fisicità in un mondo e in un’epoca – quelli attuali – in cui un microrganismo invisibile, parassitico, diviene minaccia per la sopravvivenza degli esseri umani e impone l’illegalità di qualsivoglia forma di interazione corporea, radicalizzando la misura dello spazio personale e facendo della sua contaminazione un pretesto ineludibile di sanzione.
Body snatchers (The House) è un progetto iper-privato, forse puramente speculativo e fenomenologico, che conduce il visitatore all’interno di una bolla contemporaneamente familiare e aliena. All’interno di uno scenario parallelamente pre e post umano, il visitatore si ritrova circondato da numerose presenze corporee presumibilmente umane (ma nessuno può dirlo con certezza, nessuno può confermarlo – se non c’è nessun altro a cui poter chiedere). Un affastellarsi di corpi, di loro rappresentazioni, di performatività, trasformazioni, frammentazioni e, naturalmente, anche della loro assenza. Sono corpi troppo inventati, smembrati e deformati per essere umani? Frammenti troppo allusivi per essere soltanto pelle e carne? Il visitatore sarà costretto a specchiarsi nel non corpo degli altri, nella traccia residuale di corpi che fuoriescono dai loro confini, distorti, smembrati e multi-arto, come forme o materiali esistenti, ma migliorati, come un sé collettivo smontato e ricomposto. L’imposizione della pars destruens si compenetra in una ristrutturazione del senso che, dal canto proprio, impone la propria urgenza. Non è ammesso distogliere lo sguardo; non è ammesso voltarsi da un’altra parte: l’opposto presenta i medesimi caratteri e la medesima urgenza. L’eventualità dello stare nel disagio non ammette deroghe poiché, forse, non sono i corpi in mostra a essere mostruosi o in trasformazione, ma piuttosto il corpo del visitatore medesimo. Più ci si vieta di pensare gli ibridi, più l’incrocio diventa possibile.
Quando i corpi fuoriescono dai loro confini, o quando parti di essi vengono separate dal tutto, diventano qualcosa d’altro in modo inquietante. Ciò costringe lo spettatore a rinegoziare i confini tra interno ed esterno, tra i corpi stessi, frammentati, “snaturati” e la fonte delle proprie inquietudini e paure. Il perturbante si presenta, così, nella sua doppiezza, come ciò che, pur essendo ignoto, possibilmente inconoscibile, inintelligibile e pertanto esiziale, rappresenta allo stesso tempo un che di familiare. La linea di confine tra natura e contronatura si palesa nella sua labilità e indistinzione, dando luogo a un effetto di disorientamento nella lettura e nell’interpretazione di ciò che ci viene offerto dalla percezione, che si configura come un senso di disagio verso un corpo che, a livello cognitivo, non è possibile discernere immediatamente come vivo o morto, reale o fantasmatico, un corpo tridimensionale e antropomorfo che confonde, cioè, le certezze di categorizzazione del reale e mescola ambiguamente le nozioni, esperite necessariamente come binarie – oppositive – di vita e di morte.
Body Snatchers (The House) – da intendersi come un’unica opera/esperienza collettiva – schiera speculazioni sulla realtà e sulla finzione, sulla soggettivazione ma anche sull’intersoggettività, la gerarchia e il divenire, l’incontro con l’alterità, la relazione (interazione) tra differenti componenti/materie/realtà e la negoziazione tra privato e collettivo, l’Io e il Noi, l’Io e l’altro (e, se ancora esiste, l’altro-corpo). Come nell’omonimo film di Abel Ferrara[1], nella mostra sarà difficile affermare cosa sia reale: tu o loro – il tuo corpo o il loro (e ancora, noi o loro – il nostro corpo o il loro)? Il corpo umano abbraccia e accoglie in sé il non umano, l’alterità, dandogli quartiere e determinando una presenza/assenza di corpi in divenire, in evoluzione o in stato di reazione a qualcosa di nuovo e inaspettato, dando luogo, così, a una metamorfosi.
La corporeità è pensata a partire dalla relazione tra corporeo e organico, dove l’organismo è sia componente vitale sia struttura, organizzazione normale e normatrice[2]. L’estetica radicata negli stati di cambiamento e ibridazione, di transizione permanente, implica un ripensamento di tali aporie nell’ottica di una presa di coscienza dell’arbitrarietà della pretesa della purezza, dell’aderenza alle regole di natura volta all’estromissione e alla condanna della diversità, del non con-forme, dell’anormalità tacciata di anomalia[3].
Secondo la teoria della Gestalt, le modalità attraverso cui la percezione visiva opera procedono a partire da una sorta di sguardo d’insieme che consente di cogliere l’interezza di ciò che viene percepito. In seconda istanza, l’approccio iniziale, di tipo olistico, si modifica verso una comprensione analitica del dato percepito, operando una sorta di scanning dei singoli elementi che lo compongono. Poiché «è vero che il mondo è ciò che noi vediamo, ed è altresì vero che nondimeno dobbiamo imparare a vederlo»[4], occorre declinare in senso prospettico il nostro sguardo su ciò che ci circonda, apprendere a relativizzare, sospendere il giudizio e, contestualmente, affinare il senso critico. Il sonno della ragione genera mostri, allo stesso modo in cui il torpore dell’emotività genera disumanità.
Parti del corpo e tagli di carne non sempre identificabili costringono lo spettatore a un incontro viscerale con oggetti familiari, ma anche alieni. Un cadavere umano non è di per sé abietto, ma l’incontro con esso può certamente generare aberrazione. Ma anche attrazione. Una ricalibrazione della propria relazione con l’oggetto coinvolge il corpo mentre cerca di valutare se l’oggetto estraneo è una fonte di minaccia o fascinazione, forse entrambe, elementi coappartenenti di una zuppa tossica che ingenera seduzione e interesse carnale al disgusto, fantasie distopiche di voyeurismo e violenza, allusioni viscerali e scultoree, narrazioni immaginate di invasioni corporee; il grottesco dilagante, con corpi elastici, deformi o mostruosi. La possibilità di metamorfizzare la propria carne e la propria immagine – di permearne le soglie – è sia intossicante che ansiogeno.
Body snatchers è una creatura di confine che vaga tra i margini di tutto ciò che è familiare e convenzionale. È desiderosa di trasformazione, una bocca aperta che invita alla discesa in altri mondi in uno spazio per accumulare nuove idee ed enigmi etici. Un terreno maturo per l’attecchimento di perversioni che spingono i confini destituendone i limiti di ogni legittimità, sdoganando narrazioni che si pre-occupano di infezione e stati alterati. La vita è un cambiamento costante; stiamo mangiando il mondo, il mondo mangia noi. Siamo tutti mortali. Siamo tutti umani. Siamo tutti carne. Non possiamo sfuggire alle nostre inclinazioni né tantomeno alla nostra carne e al nostro sangue, alla loro decadenza e putrefazione. La prossima generazione potrà anche evolversi in cyborg schizzinosi, ma restando ancora sangue, viscere ed escrementi… contagiosi e virulenti…
Merda e luce. Like A Little Disaster & Giusi Aglieri
Nella tarda antichità e in epoca medievale, la mostruosità diviene, da prodigio, un problema di storia naturale, evolvendosi nel senso del fantastico e giungendo fino alla prospettiva fantascientifica e horror della contemporaneità, che delinea l’esistenza di forme di vita aliene e cyborg. La storia del termine “mostro” e della costellazione di significati che da esso si ramifica attraverso il susseguirsi di epoche storiche fino a giungere a quella attuale in cui, recepita la connotazione morale, si assiste anche alla mostrificazione di oggetti, individui, gruppi, eventi. Il concetto di diversità assume generalmente una valenza autosanzionatoria; corpi diversi dalla norma(lità), che deviando da standard impossibili, strutturano modalità alternative del darsi della corporeità, divengono per ciò stesso infrazione. Il divieto si radicalizza nella sua pervasività valicando i confini dell’antinomia inerente al corpo normale e al corpo anormale, mostruoso, grottesco, investendo nella loro interezza la corporeità e la fisicità in un mondo e in un’epoca – quelli attuali – in cui un microrganismo invisibile, parassitico, diviene minaccia per la sopravvivenza degli esseri umani e impone l’illegalità di qualsivoglia forma di interazione corporea, radicalizzando la misura dello spazio personale e facendo della sua contaminazione un pretesto ineludibile di sanzione.
Body snatchers (The House) è un progetto iper-privato, forse puramente speculativo e fenomenologico, che conduce il visitatore all’interno di una bolla contemporaneamente familiare e aliena. All’interno di uno scenario parallelamente pre e post umano, il visitatore si ritrova circondato da numerose presenze corporee presumibilmente umane (ma nessuno può dirlo con certezza, nessuno può confermarlo – se non c’è nessun altro a cui poter chiedere). Un affastellarsi di corpi, di loro rappresentazioni, di performatività, trasformazioni, frammentazioni e, naturalmente, anche della loro assenza. Sono corpi troppo inventati, smembrati e deformati per essere umani? Frammenti troppo allusivi per essere soltanto pelle e carne? Il visitatore sarà costretto a specchiarsi nel non corpo degli altri, nella traccia residuale di corpi che fuoriescono dai loro confini, distorti, smembrati e multi-arto, come forme o materiali esistenti, ma migliorati, come un sé collettivo smontato e ricomposto. L’imposizione della pars destruens si compenetra in una ristrutturazione del senso che, dal canto proprio, impone la propria urgenza. Non è ammesso distogliere lo sguardo; non è ammesso voltarsi da un’altra parte: l’opposto presenta i medesimi caratteri e la medesima urgenza. L’eventualità dello stare nel disagio non ammette deroghe poiché, forse, non sono i corpi in mostra a essere mostruosi o in trasformazione, ma piuttosto il corpo del visitatore medesimo. Più ci si vieta di pensare gli ibridi, più l’incrocio diventa possibile.
Quando i corpi fuoriescono dai loro confini, o quando parti di essi vengono separate dal tutto, diventano qualcosa d’altro in modo inquietante. Ciò costringe lo spettatore a rinegoziare i confini tra interno ed esterno, tra i corpi stessi, frammentati, “snaturati” e la fonte delle proprie inquietudini e paure. Il perturbante si presenta, così, nella sua doppiezza, come ciò che, pur essendo ignoto, possibilmente inconoscibile, inintelligibile e pertanto esiziale, rappresenta allo stesso tempo un che di familiare. La linea di confine tra natura e contronatura si palesa nella sua labilità e indistinzione, dando luogo a un effetto di disorientamento nella lettura e nell’interpretazione di ciò che ci viene offerto dalla percezione, che si configura come un senso di disagio verso un corpo che, a livello cognitivo, non è possibile discernere immediatamente come vivo o morto, reale o fantasmatico, un corpo tridimensionale e antropomorfo che confonde, cioè, le certezze di categorizzazione del reale e mescola ambiguamente le nozioni, esperite necessariamente come binarie – oppositive – di vita e di morte.
Body Snatchers (The House) – da intendersi come un’unica opera/esperienza collettiva – schiera speculazioni sulla realtà e sulla finzione, sulla soggettivazione ma anche sull’intersoggettività, la gerarchia e il divenire, l’incontro con l’alterità, la relazione (interazione) tra differenti componenti/materie/realtà e la negoziazione tra privato e collettivo, l’Io e il Noi, l’Io e l’altro (e, se ancora esiste, l’altro-corpo). Come nell’omonimo film di Abel Ferrara[1], nella mostra sarà difficile affermare cosa sia reale: tu o loro – il tuo corpo o il loro (e ancora, noi o loro – il nostro corpo o il loro)? Il corpo umano abbraccia e accoglie in sé il non umano, l’alterità, dandogli quartiere e determinando una presenza/assenza di corpi in divenire, in evoluzione o in stato di reazione a qualcosa di nuovo e inaspettato, dando luogo, così, a una metamorfosi.
La corporeità è pensata a partire dalla relazione tra corporeo e organico, dove l’organismo è sia componente vitale sia struttura, organizzazione normale e normatrice[2]. L’estetica radicata negli stati di cambiamento e ibridazione, di transizione permanente, implica un ripensamento di tali aporie nell’ottica di una presa di coscienza dell’arbitrarietà della pretesa della purezza, dell’aderenza alle regole di natura volta all’estromissione e alla condanna della diversità, del non con-forme, dell’anormalità tacciata di anomalia[3].
Secondo la teoria della Gestalt, le modalità attraverso cui la percezione visiva opera procedono a partire da una sorta di sguardo d’insieme che consente di cogliere l’interezza di ciò che viene percepito. In seconda istanza, l’approccio iniziale, di tipo olistico, si modifica verso una comprensione analitica del dato percepito, operando una sorta di scanning dei singoli elementi che lo compongono. Poiché «è vero che il mondo è ciò che noi vediamo, ed è altresì vero che nondimeno dobbiamo imparare a vederlo»[4], occorre declinare in senso prospettico il nostro sguardo su ciò che ci circonda, apprendere a relativizzare, sospendere il giudizio e, contestualmente, affinare il senso critico. Il sonno della ragione genera mostri, allo stesso modo in cui il torpore dell’emotività genera disumanità.
Parti del corpo e tagli di carne non sempre identificabili costringono lo spettatore a un incontro viscerale con oggetti familiari, ma anche alieni. Un cadavere umano non è di per sé abietto, ma l’incontro con esso può certamente generare aberrazione. Ma anche attrazione. Una ricalibrazione della propria relazione con l’oggetto coinvolge il corpo mentre cerca di valutare se l’oggetto estraneo è una fonte di minaccia o fascinazione, forse entrambe, elementi coappartenenti di una zuppa tossica che ingenera seduzione e interesse carnale al disgusto, fantasie distopiche di voyeurismo e violenza, allusioni viscerali e scultoree, narrazioni immaginate di invasioni corporee; il grottesco dilagante, con corpi elastici, deformi o mostruosi. La possibilità di metamorfizzare la propria carne e la propria immagine – di permearne le soglie – è sia intossicante che ansiogeno.
Body snatchers è una creatura di confine che vaga tra i margini di tutto ciò che è familiare e convenzionale. È desiderosa di trasformazione, una bocca aperta che invita alla discesa in altri mondi in uno spazio per accumulare nuove idee ed enigmi etici. Un terreno maturo per l’attecchimento di perversioni che spingono i confini destituendone i limiti di ogni legittimità, sdoganando narrazioni che si pre-occupano di infezione e stati alterati. La vita è un cambiamento costante; stiamo mangiando il mondo, il mondo mangia noi. Siamo tutti mortali. Siamo tutti umani. Siamo tutti carne. Non possiamo sfuggire alle nostre inclinazioni né tantomeno alla nostra carne e al nostro sangue, alla loro decadenza e putrefazione. La prossima generazione potrà anche evolversi in cyborg schizzinosi, ma restando ancora sangue, viscere ed escrementi… contagiosi e virulenti…
Merda e luce. Like A Little Disaster & Giusi Aglieri
[1] Ultracorpi – L’invasione continua (Body Snatchers), film del 1993, presentato in concorso al 46º Festival di Cannes, costituisce uno degli adattamenti cinematografici del romanzo L’invasione degli ultracorpi (The Body Snatchers, 1955) di Jack Finney; del 1956 è, invece, la versione del regista Don Siegel, dal titolo L’invasione degli Ultracorpi e del 1978 quella di Philip Kaufman, Terrore dallo spazio profondo. Del 2007 è, infine, Invasion, di Oliver Hirschbiegel.
[2] Cfr. S.K. Langer, La forma vivente, in Ead., Problemi dell’arte. Dieci conferenze filosofiche, trad. di M. Attardo Magrini, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 51 e sgg.
[3] Il concetto di ibridazione rinvia alla coappartenenza della corporeità e del grottesco, invalidando la delimitazione arbitraria e limitante dei confini e degli standard stabiliti per la corporeità stessa. Come scrive, infatti, Bachtin: «tra le cose belle di questo mondo terreno sono stabiliti e fissati dalla tradizione e consacrati dalla religione e dall’ideologia ufficiale legami falsi, che deformano l’autentica natura delle cose. Le cose e le idee sono unite da falsi rapporti gerarchici, ostili alla loro natura. Esse sono disgiunte e separate tra loro da ogni sorta di strati ideali ultraterreni, che non permettono alle cose di stare in contatto nella loro viva corporeità. Il pensiero scolastico, la menzognera casistica teologica e giuridica e, infine, lo stesso linguaggio, impregnato di secolare e millenaria menzogna, cristallizzano questi ipocriti legami tra le belle parole tangibili e le idee realmente umane. È necessario distruggere e ricostruire tutto questo falso quadro del mondo, spezzare tutti i falsi legami gerarchici tra le cose e le idee, distruggere tutti gli strati ideali divisori tra di loro. È necessario liberare tutte le cose, permettere loro di entrare in libere unioni, proprie della loro natura, per quanto bizzarre queste unioni sembrino dal punto di vista dei legami tradizionali consueti. È necessario dare alle cose la possibilità di stare in contatto nella loro viva corporeità e nella loro varietà qualitativa. È necessario creare tra le cose e le idee nuovi vicinati che rispondano alla loro effettiva natura, porre accanto e unire ciò che è stato fallacemente diviso e allontanato e disgiungere ciò che è stato fallacemente avvicinato» (M. Bachtin, Estetica e romanzo, a cura di C. Strada Janovič, Einaudi, Torino 19792, pp. 315-316). Forse, dei «nuovi vicinati» di cui parla Bachtin potrebbe trovarsi traccia nelle grottesche risalenti al I secolo a.C., realizzate nell’ambito della pittura romana come decorazione parietale e poi riprese a partire dal Quattrocento, raffiguranti esseri ibridi, figure mostruose che fondono insieme tratti antropomorfi, componenti naturali ed elementi architettonici.
[4] M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, trad. it. di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, testo stabilito da C. Lefort, nuova ed. it. a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 20034, p. 32 – il corsivo è nel testo.
[2] Cfr. S.K. Langer, La forma vivente, in Ead., Problemi dell’arte. Dieci conferenze filosofiche, trad. di M. Attardo Magrini, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 51 e sgg.
[3] Il concetto di ibridazione rinvia alla coappartenenza della corporeità e del grottesco, invalidando la delimitazione arbitraria e limitante dei confini e degli standard stabiliti per la corporeità stessa. Come scrive, infatti, Bachtin: «tra le cose belle di questo mondo terreno sono stabiliti e fissati dalla tradizione e consacrati dalla religione e dall’ideologia ufficiale legami falsi, che deformano l’autentica natura delle cose. Le cose e le idee sono unite da falsi rapporti gerarchici, ostili alla loro natura. Esse sono disgiunte e separate tra loro da ogni sorta di strati ideali ultraterreni, che non permettono alle cose di stare in contatto nella loro viva corporeità. Il pensiero scolastico, la menzognera casistica teologica e giuridica e, infine, lo stesso linguaggio, impregnato di secolare e millenaria menzogna, cristallizzano questi ipocriti legami tra le belle parole tangibili e le idee realmente umane. È necessario distruggere e ricostruire tutto questo falso quadro del mondo, spezzare tutti i falsi legami gerarchici tra le cose e le idee, distruggere tutti gli strati ideali divisori tra di loro. È necessario liberare tutte le cose, permettere loro di entrare in libere unioni, proprie della loro natura, per quanto bizzarre queste unioni sembrino dal punto di vista dei legami tradizionali consueti. È necessario dare alle cose la possibilità di stare in contatto nella loro viva corporeità e nella loro varietà qualitativa. È necessario creare tra le cose e le idee nuovi vicinati che rispondano alla loro effettiva natura, porre accanto e unire ciò che è stato fallacemente diviso e allontanato e disgiungere ciò che è stato fallacemente avvicinato» (M. Bachtin, Estetica e romanzo, a cura di C. Strada Janovič, Einaudi, Torino 19792, pp. 315-316). Forse, dei «nuovi vicinati» di cui parla Bachtin potrebbe trovarsi traccia nelle grottesche risalenti al I secolo a.C., realizzate nell’ambito della pittura romana come decorazione parietale e poi riprese a partire dal Quattrocento, raffiguranti esseri ibridi, figure mostruose che fondono insieme tratti antropomorfi, componenti naturali ed elementi architettonici.
[4] M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, trad. it. di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, testo stabilito da C. Lefort, nuova ed. it. a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 20034, p. 32 – il corsivo è nel testo.