Ecotoni II
Daniela Corbascio, Jumana Manna, Nguyễn Trinh Thi.
A cura di Like A Little Disaster
2 Settembre / 30 Novembre 2022 @Foothold, Polignano a Mare
Ad un anno esatto da Ecotoni I, con Laurie Anderson, Ericka Beckman, Jenny Holzer, Joan Jonas, Agnieszka Polska e Jenna Sutela, Like A Little Disaster è orgogliosa di presentare il secondo capitolo della serie che coinvolge tre nuove artiste: Daniela Corbascio, Jumana Manna e Nguyễn Trinh Thi.
Una transizione tra due sistemi o biomi adiacenti ma diversi, gli ecotoni ci appaiono sia come dei cambiamenti graduali che come demarcazioni improvvise.
a più che indicatori di separazione o di connessione gli ecotoni sono zona di fecondità, creatività, trasformazione; del divenire assemblando, moltiplicandosi; di divergere, differenziare, rinunciare.
Gli abitanti di un ecotono sono zone per pionieri coraggiosi.
Un ecotono è contemporaneamente sia un passato anticipato, un futuro ricordato.
Attraverso pratiche, poetiche e campi semantici diversi, le tre artiste in mostra strutturano territori di transizione o tensione fra due o più ecosistemi comunità natural-culturali eterogenee. L’ecotono diventa così la strategia e il metodo più efficaci per riflettere sulle relazioni interlacciate tra natura e cultura.
“Qualcosa accade.
Estuari, zone di marea, zone umide: sono tutti spazi liminali dove “due sistemi complessi si incontrano, si abbracciano, si scontrano e si trasformano.”
Eco: casa. Tono: tensione.
Dobbiamo imparare a sentirci a nostro agio nella tremante tensione dell’intermedio. Nessun’altra casa è disponibile. Tra natura e cultura, tra biologia e filosofia, tra l’umano e tutto ciò contro cui ci scontriamo, tutto ciò da cui ci proteggiamo disperatamente, tutto ciò in cui ci gettiamo, naufragati e incauti, guardando, stupiti, come la nostra pelle diventa più sottile.”
Problematico trovare una definizione esaustiva per la ricerca di Daniela Corbascio. Il suo lavoro fagocita linguaggi, segue un personale flusso di coscienza, regola e orchestra le forme della memoria, facendoli coesistere in perfetti bilanciamenti. La sua attitudine dominante sembra quella di una ricercatrice indipendente che, in modo originale e antiaccademico, individua un incipit e poi segue un’evoluzione dettata dall’alternarsi di rigore modulare, casualità e coincidenze. Daniela ha una straordinaria abilità nell’appropriarsi di uno spazio fisico nel quale organizza rigorosamente forme e materiali ambivalenti, fra ciò che ha costruito e ciò che ha trovato, raccolto, collezionato, conservato. La logica materiale-immateriale di questi ecosistemi rende possibile una penetrazione filosofica nel rapporto tra cose, segni, linguaggi e percezione. Le sue installazioni sembrano operare come palcoscenici fenomenologici perfettamente sintonizzati con gli spazi architettonici circostanti.
Gli interventi di Daniela sono memoria che si tramuta in paesaggio – non inteso come scena ma come spazio contingente da attraversare nel tempo – si accompagna una memoria fatta di forme; il minimalismo con le sue forme basilari e il loro posizionamento in galleria, il post-minimalismo con la corruzione di queste stesse forme, il concettuale, pur non aderendo alla dematerializzazione dell’opera, la land art, l’arte povera, ecc. Una memoria di forme in gioco in un numero di pratiche o semi-pratiche scultoree connaturate agli artisti delle ultime generazioni con cui Corbascio condivide anche la prassi del “collezionare” come uno degli strumenti per raggiungere uno stato di autorialità e in questa poetica l’assemblaggio, la trasformazione; la moltiplicazione divergente e differenziata divengono territori fecondi per nuovi misticismi.
La sua pratica attua un’operazione di riposizionamento che offre nuove prospettive a ciò che esiste già. Prendere possesso, modificare e ripensare oggetti, elementi e forme della realtà fenomenica contrassegna la loro azione che, per mezzo di tali passaggi, ci permette di pensare la realtà come un gioco di differenze, mentre normalmente la pensiamo in termini di somiglianza, analogia, identità. Corbascio indaga la possibilità di attribuire un nuovo scopo ad elementi prelevati dalla realtà, rimuoverli intenzionalmente dal dominio della percezione automatica e renderli astratti in modo da mettere quegli elementi e i loro rapporti, usi, connotazioni in mostra.
Tramite la dissociazione di oggetti e concetti, l’artificio delle opere in mostra rende la percezione lenta e permanente, generando una strana contraddizione poiché gli stessi concetti e oggetti sono stati frammentati o separati dal loro uso meccanico al fine di poter sostenere uno sguardo più prolungato e attento. Come i paradossi, i suoi interventi hanno la capacità unica di amplificare le contraddizioni, si dichiarano apertamente attraverso la loro con-fusione, in quanto è lo spettatore che deve soffermarsi e pensare a quali potrebbero essere le loro connessioni e i loro sviluppi. Ciò che confonde nelle opere in mostra è il fatto che ci presentano un commento attraverso l’attribuzione di nuove intenzioni, mentre allo stesso tempo ci offrono una diramazione di sensazioni tale da consentirci varie letture, poiché attivano una reazione a catena di riflessioni.
Tali premesse chiamano in causa questioni complesse come il rapporto copia-originale, visto e interpretato dall’artista come reciprocamente costitutivo tra la cosa e il suo doppio, la cosa e l’ombra. Mettendo continuamente in discussione la logica della rappresentazione, Daniela propone ripetizioni, doppi, oggetti e soggetti straniati, che accolgono molteplici realtà al proprio interno o si scompongono, si scollegano e diventano tutto, o qualsiasi altra cosa; alterando in infiniti modi la logica dell’originale e della copia, in modo tale da negare ogni immagine normativa del pensiero ed emanciparlo dall’asservimento a e dalla gerarchia di ogni forma-immagine predefinita.
Maria Annina #1
Cristal, cotone, legno, ferro 127 x 94 cm. – 2022
Maria Annina #2
Pelle, plastica 45 x 30 cm. – 2022
Maria Annina #3
Ferro, legno 260 x 70 x 90 circa cm. – 2022
Jumana Manna è un artista palestinese che lavora principalmente con il cinema e la scultura. Il suo lavoro esplora come il potere si articola attraverso le relazioni, spesso concentrandosi sul corpo e sulla materialità in relazione alle narrazioni della costruzione dello stato e alle storie del luogo, alla terra e alla materia in rapporto alle eredità coloniali e alle storie dei luoghi.
Attraverso sculture, film e testi, Manna mette in discussione i paradossi delle pratiche di conservazione, in particolare nei campi dell’archeologia, della scienza e del diritto. La sua ricerca tiene conto della tensione tra le tradizioni moderniste di categorizzazione e conservazione e la potenziale “sregolatezza” delle rovine come parte integrante della vita e della sua rigenerazione.
Wild Relatives
64min, HD video, 2018
Nelle profondità della terra, al di sotto del permafrost artico, semi provenienti da tutto il mondo sono conservati nello Svalbard Global Seed Vault per fornire un supporto in caso di disastro. Wild Relatives parte da un evento che ha suscitato l’interesse dei media in tutto il mondo: nel 2012 un centro internazionale di ricerca agricola è stato costretto a trasferirsi da Aleppo al Libano a causa della rivoluzione siriana trasformata in guerra e ha iniziato un laborioso processo di semina della collezione di backup delle Svalbard. Seguendo il percorso di questa transazione di semi tra l’Artico e il Libano, una serie di incontri svela una matrice di vite umane e non umane tra questi due luoghi lontani della terra. Il film cattura l’articolazione tra questa iniziativa internazionale su larga scala e la sua attuazione locale nella valle della Bekaa in Libano, portata avanti principalmente da giovani donne migranti. Il ritmo meditativo stimola pazientemente le tensioni tra stato e individuo e ideologie, tra gli approcci industriali e biologici al risparmio di semi, ai cambiamenti climatici e alla biodiversità, testimoniati attraverso il viaggio di questi semi.
NGUYEN Trinh Thi è una regista e artista video/mediale indipendente con sede ad Hanoi in Vietnam. Nella sua pratica, esplora il potere del suono e dell’ascolto, e le molteplici relazioni tra immagine, suono e spazio, con continui interessi per la memoria, la rappresentazione, il paesaggio, l’indigeneità e l’ecologia. Il suo lavoro indaga il ruolo della memoria in complesse storie culturali.
Nguyen ha studiato giornalismo, fotografia, relazioni internazionali e cinema etnografico negli Stati Uniti. Nel 2009 ha fondato Hanoi DOCLAB, un centro indipendente per il cinema documentario e l’arte delle immagini in movimento ad Hanoi.
È nota per il suo approccio stratificato, personale e poetico alle storie controverse e agli eventi attuali attraverso esperimenti con l’immagine in movimento. Considerata una delle pioniere del cinema indipendente del suo paese d’origine, Thi è considerata la videoartista più importante della scena artistica contemporanea del Vietnam.
Ispirati dalla sua eredità, i suoi pezzi sono potenti e inquietanti e si concentrano su questioni sociali e culturali, in particolare la complessa e traumatica storia del Vietnam e le sue conseguenze nel presente. Nei suoi film documentari più lunghi, utilizza immagini calme e tranquille mentre evita le voci fuori campo per consentire alla gente del suo paese di parlare direttamente alla telecamera. La sua pratica diversificata ha costantemente indagato il ruolo della memoria nella necessaria rivelazione di storie nascoste, spostate o male interpretate, e ha esaminato la posizione degli artisti nella società vietnamita.
How to Improve the World (2021)
Video monocanale, colori e b/n, suono, loop, 47 minuti
Ambientato negli altopiani centrali del Vietnam, dove vive una grande concentrazione di gruppi di indigeni, How to Improve the World è un film sull’ascolto. Il film riflette sulle differenze nel modo in cui la memoria viene elaborata tra la cultura dell’occhio e quella dell’orecchio, osservando la perdita di terra, la riduzione del territorio boschivo, così come il modo di vivere delle popolazioni indigene in questa parte del mondo. ‘Ti fidi di più dei suoni o delle immagini?’ chiede Nguyễn, fuori campo, a sua figlia, che risponde ‘delle immagini, mamma’. A proposito del predominio culturale delle immagini a spese di altre modalità sensoriali, Nguyen ha detto: “Dato che le nostre culture globalizzate e occidentalizzate sono diventate dominate dai media visivi, sento il bisogno e la responsabilità come regista di resistere a questo potere narrativo dell’immaginario visivo, e cerco un approccio più equilibrato e sensibile nella percezione del mondo, prestando maggiore attenzione ai paesaggi sonori, in linea con i miei interessi per l’ignoto, l’invisibile, l’inaccessibile e nelle potenzialità’.
Letters from Panduranga (2015)
Video monocanale, colore e b/n, audio, 35:00
Il film-saggio, realizzato sotto forma di scambio epistolare tra un uomo e una donna, è stato ispirato dalla decisione del governo vietnamita di costruire le prime due centrali nucleari del Paese a Ninh Thuan (ex Panduranga), proprio nel cuore spirituale degli indigeni Cham, minacciando la sopravvivenza di questa antica cultura matriarcale indù che risale a quasi duemila anni fa.
Al confine tra documentario e finzione, il film porta e sposta l’attenzione del pubblico tra primo piano e sfondo, tra ritratti intimi e paesaggi lontani, offrendo riflessioni sul lavoro nei campi, l’etnografia, l’arte e il ruolo dell’artista.
Intrecciando circostanze tra passato, presente e futuro, il film svela anche l’esperienza sfaccettata, sia storica che e in corso, del colonialismo ed esamina le idee centrali di potere e ideologia nella nostra quotidianità.
Fifth Cinema (2018)
Video monocanale, colore e B&N, audio, 56 minuti
Con testo di Barry Barclay (“Celebrating the Fourth Cinema”, 2003)
Fifth Cinema inizia con una dichiarazione tranquilla “Sono un regista, come sai”. Quel testo e quello che segue, del regista maori Barry Barclay, che ha coniato il termine “Quarto cinema” per distinguere il cinema indigeno dalla struttura consolidata del “Primo, Secondo e Terzo Cinema”, fornisce una struttura al film saggio ibrido di Nguyen che si muove su cinematografie multiple e terreni di attualità. Evitando la voce a favore della parola scritta e giustapponendo immagini in movimento della figlia della regista con immagini d’archivio di donne vietnamite viste attraverso l’obiettivo degli “ufficiali di nave”, il film conduce lentamente lo spettatore attraverso una narrazione di colonialismo, indigeneità e limitazioni cinematografiche nella rappresentazione.
Statement
Faccio questo film come cittadina – del Vietnam e del mondo – come regista, artista, donna, madre. Ci sono più identità. Mi interessa fondere le mie identità con quelle di Barry Barclay, per poter vedere le cose con sensi e prospettive più ampi. Parlo dal punto di vista di chi, come ognuno di noi, può ssere potenzialmente l’oppresso; e l’oppressore.
Faccio film che si confrontano con l’identità, la storia e le memorie locali e nazionali, ma allo stesso tempo affrontano qualcosa che è universale. Cerco di trovare le regole sottostanti che governano le nostre vite, mondi e realtà. Il modo in cui guardiamo le cose.
Mi interessa anche l’ignoto, l’invisibile, l’inaccessibile e le potenzialità. Come ha detto Barclay, “Ma credo che in Fourth Cinema si stia affermando qualcos’altro a cui non è facile accedere”.
In questo film penso che Quarto cinema e l’indigeneità funzionino più a livello metaforico, rappresentando la bellezza e la saggezza in un mondo mondo che richiede rispetto. Una metafora di tutte le cose oppresse: le donne, le minoranze, i colonizzati.
Mi piace viaggiare attraverso lo spazio, il tempo ei generi per trovare tutte queste connessioni e identificare le strutture sottostanti. Penso che sfortunatamente siamo governati universalmente da strutture di potere, dominio e patriarcato.