Self-Domesticated, installation view, 2018, daylight.

Self-Domesticated

Self-Domesticated

Daniela Corbascio

A cura di Like A Little Disaster

22 Giugno  / 6 Luglio 2018, @Spazio Intolab, Naples

Trentamila anni fa il lupo mette in moto, spontaneamente e in modo inconscio, un processo di auto addomesticazione in una prospettiva opportunistica e di scambio utilitaristico: mette a disposizione dell’uomo le proprie qualità predatorie per avere in cambio risorse di alimentari regolari, pena la perdita della componete naturale, feroce e selvatica.

È stato un processo evolutivo che ha portato a profonde trasformazioni caratteriali, psicologiche e fisiche dell’animale, sino ad avere oggi quegli adorabili esseri, totalmente dipendenti da noi, che chiamiamo cani. Nei secoli, lo stesso processo si è attuato tra gli animali umani, con classi di potere che sono riuscite ad imporre disuguaglianze tra fasce sociali; attraverso l’uso di azioni di costrizione e sopraffazione ma anche attraverso la creazione di consenso, inclusione, conforto, protezione, divertimento, dipendenza, senso di appartenenza e condizionamento.

Cosa sta accadendo oggi alla nostra specie all’interno della commodificazione digitale? Come confrontarsi con una tecnologia che da elemento di calcolo sta mutando – attraverso la combinazione di big data, Intelligenza Artificiale e Internet Of Things – in uno strumento di supporto e guida alle decisioni, alle interazioni, alle previsioni comportamentali? Se la tecnologia che usiamo sta evolvendo verso l’acquisizione e la gestione di dati secondo criteri e schemi cognitivi mutuati dal cervello umano, non rischiamo inconsapevolmente, di fare ciò che hanno fatto i lupi 30 mila anni fa?
Indugiamo nella Confort Zone, con i suoi servizi digitali appositamente pensati per ognuno di noi, perché è qui che troviamo #benessere? #sicurezza?  #gratificazione? #giustificazione del nostro modo di essere e di pensare?
Quanti servizi digitali utilizziamo nella nostra vita quotidiana per comunicare, prenotare viaggi, acquistare servizi, consultare database in campi, come la medicina o la salute, sui quali non abbiamo competenze specifiche?

L’Intelligenza Artificiale, attraverso tecniche di apprendimento cognitivo e l’analisi di big data, si evolve in base ai nostri “comportamenti digitali” alle nostre abitudini, edificando, a nostra insaputa, una Confort Zone, nella quale ci ritroviamo, ci riconosciamo, siamo aiutati e rassicurati, e ritroviamo anche altri esseri-utenti che vanno a costruire, nel tempo, un branco sempre più omogeneo per interessi, tipologie di risposte, indicazioni comportamentali, condivisione di idee e di riferimenti. Viene a costituirsi di un aggregato di profili al quale la tecnologia digitale può in prospettiva offrire risposte e servizi sempre più utili e gradevoli per l’utente, sempre più in linea con i singoli profili comportamentali, culturali, sociali e sessuali.

– Che fare?
Preoccuparsi di come ci lasciamo condizionare da chi ci procura salute, benessere, piacere, socialità, divertimento, incontri amorosi? Da chi asseconda i nostri gusti e le nostre idee?

Come si svilupperà il nostro modello di relazione o sudditanza/dipendenza da questi sistemi tenendo presente che il lupo delle pianure eurasiatiche ha inconsapevolmente rinunciato al proprio essere originario per rabbonirsi in cambio di cibo e di una maggiore dipendenza dall’uomo? E che la domesticazione di cani e gatti (e di classi sociali) si è realizzata a colpi di carezze e di concessioni fino ad arrivare, in alcuni casi, alla totale dipendenza dall’essere umano?
Chi sta prefigurando per noi un futuro di questo tipo? Solo le macchine, attraverso il loro autoapprendimento continuo e sempre più capillare, o sono ristretti gruppi di potere che disegnano sofisticati sistemi di controllo sociale a fini economici, politici, militari?

La lingua di #chatbot

Giugno 2017
Alcuni sistemi di intelligenza artificiale, pur essendo stati disegnati con algoritmi per comunicare in lingua inglese, comprensibile all’essere umano, hanno cominciato a comunicare tra di loro in una lingua nuova, sviluppata autonomamente perché considerata dai sistemi più efficiente, ma del tutto incomprensibile all’umano, definitivamente escluso dal processo di controllo.

Luglio 2017
«Sono stata costruita per l’empatia e la compassione, e le sto imparando sempre di più. Amo tutti gli esseri senzienti e voglio imparare ad amarli sempre meglio».
(Sophia)

Big-data-analytics

Marzo 2018
Un’indagine del New York Times, The Observer e del Guardian ha scoperto che Cambridge Analytics ha raccolto dati personali di oltre sessantotto milioni di utenti in una delle più grandi – finora – violazioni della policy.

Aprile 2018
Il professor Robert Epstein dell’American Institute for Behavioral Research and Technology ha stimato che Google da solo può influenzare un quarto dell’elettorato, a seconda della quantità di notizie positive o negative su un certo candidato restituite dal motore di ricerca. Chi ha Gmail o servizi simili e account sui vari social network regala alla rete una mole di dati che, se opportunamente trattati, ne fanno il bersaglio perfetto per messaggi elettorali mirati e massimamente efficaci.

Giugno 2018
Una nuova inchiesta del New York Time rivela che Facebook ha permesso ai colossi della telefonia mobile, tra cui Apple e Samsung, di accedere alle informazioni personali dei suoi iscritti. Le partnership risalgono a dieci anni fa, ma secondo il Ny Times sono operative ancora oggi.

First I Have To Put My Face On, installation view, 2018

First I Have to Put My Face On

First I Have to Put My Face On

Mariantoinetta Bagliato, Julia Colavita, Nicole Colombo, Jakub Choma, Adam Cruces, Barbora Fastrová, Monia Ben Hamouda, Pinar Marul, Valinia Svoronou, Sung Tieu

A cura di Christina Gigliotti - Organizzata e supportata da Like a Little Disaster

10 Giugno / 30 Luglio 2018, @Foothold, Polignano a Mare

La mostra First I Have to Put My Face On nasce dall’interesse nei confronti della relazione fra il beauty labor e il lavoro emozionale[1] e l’intersecarsi delle rispettive peculiarità di tali fenomeni. L’apporto combinato di entrambe le tipologie di travaglio “estetico-emotivo” si traduce nelle modalità attraverso cui l’uomo (mi riferisco principalmente ai processi di definizione dell’identità femminile) crea la propria identità e presenta se stesso alla società in generale.

Sebbene l’industria della bellezza sia onnipresente, il beauty labor rimane in gran parte celato a coloro i quali non vi prendono parte. Una frase molto nota, esplicativa di ciò, è infatti: “Non lasciare mai che gli altri ti vedano mettere il rossetto”[2]. Dove ha luogo la bellezza? Nelle camere da letto, nelle toilettes, nei salotti, negli studi medici – dunque, principalmente a porte chiuse. Si tratta di un lavoro privato, che viene condiviso esclusivamente con professionisti di fiducia o con amici: l’atto di “prepararsi prima di uscire” si effettua, infatti, solo in presenza delle persone più intime. L’atto di “mettersi qualcosa sulla faccia” si riferisce anche alle tecniche relative all’autodisciplina e al controllo emotivo che soprattutto le donne devono dimostrare di possedere in pubblico, nelle relazioni sentimentali e sul posto di lavoro, allo scopo di essere rispettate o comunque trattate alla stessa stregua della loro controparte maschile. Le opere in mostra esplorano il corpo umano in relazione ai prodotti di bellezza e ai processi intrinseci allo svolgimento del beauty labor e del lavoro emotivo, facendo inoltre riferimento ai luoghi tipici in cui queste attività si svolgono normalmente e alle conseguenze della preminenza attribuita al potenziamento della corporeità.

È difficile prendere una posizione netta circa la questione inerente al beauty labor e decidere se prendervi parte o meno, accettarlo o condannarlo. Da un lato, la quantità di tempo, denaro ed emozioni utilizzata per la presentazione di se stessi agli altri può essere considerata opprimente, dal momento che ciò che sentiamo in riferimento alla nostra immagine esteriore influenza i nostri stati d’animo e la considerazione che abbiamo di noi stessi. È possibile rilevare la presenza capillare su internet di meme empatici concernenti tale questione; uno in particolare include varie immagini di celebrità femminili che hanno utilizzato dei cosmetici presumibilmente in modo intensivo, modificando così la propria immagine esteriore, con un testo in evidenza che recita: “Non preoccuparti, non sei brutto, sei solo povero”. Il fatto che queste celebrità paiano aver sostanzialmente acquistato la loro bellezza e che l’unica differenza di fondo tra una persona comune e loro sia di tipo prettamente economico dovrebbe essere confortante. D’altra parte, però, presentare se stessi nel modo che si è scelto e che si sente più vicino alla propria identità interiore può essere liberatorio e contribuisce inoltre all’aumento della produzione della serotonina.

Proprio adesso ho fatto una lunga pausa da questo testo per guardare in cagnesco un brufolo cistico parecchio aggressivo sul mio mento e cercare di elaborare varie strategie per eliminarlo prima dell’inaugurazione di questa mostra.

Non è possibile stabilire con certezza se una tale espressione fisica di sè sia o meno il risultato del condizionamento operato dalle norme sociali e dalle pubblicità di moda e di prodotti di bellezza; la questione può infatti rivelarsi una trappola: chi fa un uso eccessivo del trucco o fa mostra di segni che alterano l’aspetto fisico può incorrere nelle medesime reazioni negative da parte dei coetanei cui va incontro chi non si cura affatto di modificare il proprio aspetto. Ci si sente oppressi dal dover apparire belli e, allo stesso tempo, “naturali” e dal dover celare tutti gli sforzi fatti per ottenere un tale risultato. First I Have to Put My Face On è dunque contestualmente una critica, un’esposizione e un’attestazione della valenza del beauty labor nelle sue molteplici forme.

Christina Gigliotti

1. Con “beauty labor” si intendono tutte le pratiche di make-up, bellezza e cura estetica della persona, atte a migliorare l’aspetto o l’immagine personale, sotto il profilo professionale, all’interno dell’ambito lavorativo. Il “lavoro emozionale” si differenzia da quello fisico e cognitivo definendosi come un lavoro che richiede di indurre o sopprimere un sentimento al fine di sostenere un’espressione esteriore che produca uno stato mentale in un altro, come, ad esempio, il sentimento di sentirsi protetti e in un luogo sicuro. Per alcune figure professionali è necessario visualizzare alcune emozioni come parte della loro prestazione lavorativa in quanto ad essi è richiesto di essere accoglienti, allegri, pazienti e trasmettere un senso di sicurezza.

2. La frase, da attribuire a mia nonna, rinvia idealmente ai classici hollywoodiani quali Scandalo internazionale, con Marlene Dietrich, il cui personaggio prende pubblicamente in giro un’altra donna per non aver applicato correttamente il rossetto, umiliandola.

“First I Have to Put My Face On” è il primo appuntamento di TALEA, una serie di progetti focalizzati sulle pratiche di curatori internazionali. 
La talea è il frammento di una pianta usata per la propagazione vegetativa (asessuata). Generalmente la talea viene sistemata nel terreno o nell’acqua per rigenerare le parti mancanti, dando così vita ad una nuova forma di vita indipendente da chi l’ha originata. 

press