And then an insurmountable tension, to the level of an incommensurability, installation view.

And then an insurmountable tension, to the level of an incommensurability

And then an insurmountable tension, to the level of an incommensurability

Isaac Lythgoe, Petros Moris, Giulia Essyad, Nicolas Lamas, Jaana-Kristiina Alakoski, Grace Woodcock, Susi Gelb, Jennifer West, Daniela Corbascio, Yein Lee, Adham Faramawy, Dorota Gawęda & Eglė Kulbokaitė, Lucia Cristiani, Cyril Debon, Agnese Guido, Leilei Wu, Mariantonietta Bagliato, Pauline Julier, Ludovica Gugliotta, Pinar Marul, Pedro Barateiro, Élie Autin, Elena Eugeni, Bruno Giacchetti

A cura di Like A Little Disaster

18 Marzo / 10 Giugno 2023 @Palazzo San Giuseppe, Polignano a Mare

Like A Little Disaster è onorata di presentare “And then an insurmountable tension, to the level of an incommensurability” una mostra collettiva che coinvolge ventisei artisti (Isaac Lythgoe, Petros Moris, Giulia Essyad, Nicolas Lamas, Jaana-Kristiina Alakoski, Grace Woodcock. Susi Gelb, Jennifer West, Daniela Corbascio, Yein Lee, Adham Faramawy, Dorota Gawęda & Eglė Kulbokaitė, Lucia Cristiani, Cyril Debon, Agnese Guido, Leilei Wu, Mariantonietta Bagliato, Pauline Julier, Ludovica Gugliotta, Pinar Marul, Pedro Barateiro, Élie Autin, Elena Eugeni, Bruno Giacchetti), riuniti a creare uno scenario decolonizzato dall’essere umano, abitato da oggetti/soggetti ibridi, riottosi ad ogni classificazione  o definizione definitiva, nodi di una rete proliferante chimere che mettono in discussione i concetti di soggettivazione, oggettivazione e assoggettamento, la classificazione degli esseri e la gerarchia degli attori e dei valori. Il progetto si configura come un panorama strutturato da molteplici connessioni tentacolari mai del tutto chiuse, in grado di mettere in moto conseguenze inattese, imprevedibili e incontrollabili.

Gli artisti hanno realizzato opere che non sono solo fine o scopo di un processo di produzione, ma mezzi, o strumenti che potenziano la facoltà di immaginare uno spazio di co-evoluzione multiforme, attraverso il quale ricercare la cultura nella natura e viceversa, il contingente nel permanente, l’identità nella differenza e in cui sperimentare nuove alleanze e percorsi secondari che forse non porteranno sempre in luoghi lontani ma spostano il nostro punto di vista, permettendoci di considerare altre possibilità.

Le opere in mostra mettono in discussione il binarismo che separa gli umani e le loro culture, la natura e i non-umani, la filogenesi e l’ontogenesi, il patrimonio genetico, e le alterazioni tecnologiche. Una con-fusione causata dall’impossibilità di riconoscere i segni identitari di questi oggetti paradossali: senza contorni, senza termini antitetici, senza residui. Oggetti tali da non potersi più dare semplicemente in opposizione al soggetto umano, ma tra i quali l’uomo stesso è coinvolto e con il quale condividono la stessa mesh e lo stesso destino. Questi sistemi vischiosi e arruffati mettono in discussione la relazione tra umano e non-umano portandoli all’interno di un sistema circolare di reciprocità. Una maglia fatta di attaccamenti a rischio, di entità liquide, viscose, decentrate, graduali e intersoggettive, in cui ogni ente è definibile solo in relazione (pur non essendo la relazione stessa).

 

 

 

Il riduzionismo strumentale trova terreno fertile nella melma bio-capitalista nella quale siamo invischiati. Si fonda sulla nozione di “eccezionalismo umano”, etnocentrico e specista e, da questi, alla costruzione di un sistema fondato sull’opposizione binaria tra natura e cultura, natura e storia, umano e macchina, maschile e femminile, identità e alterità, ecologia e produzione, algoritmi e collegamenti neuronali, patrimonio genetico e alterazione tecnologica, razionalità e istinto, mente e corpo, spirito e materia, reale e virtuale, vero e falso, organico e inorganico, biotico e abiotico, tra senso di responsabilità e idea di gioco, ambiente in cui cresciamo e codice genetico, condivisione e il senso di sé, immaginario ed economia.

In questo doppio gioco uno dei soggetti della coppia cognitiva è sempre dominato dalla sua altra metà repressa e sottomessa. Il progetto aspira, invece, a mettere in luce la divergenza dei possibili significati assenti che sfuggono ad ogni logica dualistica: le opposizioni binarie sono considerate come punti di partenza per rimuovere e riaffermare entrambi i termini dell’opposizione all’interno di una relazione non gerarchica con la differenza. Il progetto si offre così come uno spazio destinato all’armonia che è nell’incontro degli opposti, come un dispositivo attraverso il quale sperimentare una concezione dell’individuo e del suo modo di porsi nei confronti del reale non più contraddistinta da una logica escludente, ma che al contrario tenda ad includere tutte le modalità espressive e gli ambiti d’azione.

All’interno di questi percorsi formali e mentali interviene anche una dimensione critica nei confronti di modelli cognitivi interiorizzati, acquisiti e consolidati; critica che permette di ridefinire radicalmente le regole di qualunque sistema funzionale, al fine di usare le regole in modo diverso, ignorandone la finalità originaria.

 

(x)morfismo

Le dinamiche metamorfiche che occupano gli agenti e i soggetti delle reti tecnologiche sono non umani così come gli umani, che quindi possono essere entrambi definiti ibridi, quasi-oggetti o quasi-soggetti. Il fattore x essendo il gioco di indifferenza tra “soggetti” e “oggetti” quando si tratta della costruzione di reti socio-tecnologiche quali reti scientifico laboratoriali, progetti di ingegneria e le comunità umane e naturali che ora dipendono da loro. Attraverso l’osservazione dei quasi-oggetti, non si recupera uno stallo umano/non umano ma un “mondo a ontologie variabili il risultato dell’interdefinizione degli attori. I concetti altamente mobili descrivono una visione neocibernetica della necessaria ibridità di reti simbiotiche e accoppiamenti sistema/ambiente, e descrivono altrettanto bene i paesaggi delle narrazioni metamorfiche. I quasi-oggetti concretizzano e attualizzano le mediazioni formali che tengono insieme natura e società.

 

“I quasi-oggetti elevano quella che era stata solo una distinzione, poi una separazione, poi una contraddizione, e poi una tensione insormontabile, al livello di una incommensurabilità”

 

Possiamo chiamare “morfismo” la condizione ontologica della trasformatività mediale, arrivando a quel termine cancellando da “antropomorfismo” l’idealizzazione umanistica dell’anthropos. Se l’umano non possiede una forma stabile, non è per questo senza forma. Se, invece di collegarlo a un polo costituzionale o all’altro, lo avviciniamo al centro, diventa il mediatore e persino l’intersezione dei due. L’espressione “antropomorfo” sottovaluta notevolmente la nostra umanità. Dovremmo parlare di morfismo. Il morfismo è il luogo in cui confluiscono tecnomorfismi, zoomorfismi, fisiomorfismi, ideomorfismi, teomorfismi, sociomorfismi, psicomorfismi. La loro alleanza e i loro scambi, presi insieme, sono ciò che definisce l’antropos. Un tessitore di morfismi, non è una definizione sufficiente?

Accettare questa definizione significa lasciar cadere la distinzione tra l’umano e il non umano: la metamorfosi non umana è sempre stata una proiezione autoriflessiva dell’umano. È vedere che la situazione non umana della contingenza mediale rimane una vera e propria allegoria dell’umano, e che questa allegoria è stata ora accresciuta dalla proliferazione dei poteri scientifici e delle tecnologie informatiche. Trascendenza senza contrario: ovvero, la società si mantiene solo attraverso la comunicazione; comunichiamo solo attraverso i media; quindi, manteniamo senza superare le contingenze mediali della costruzione dell’umano – e i sistemi narrativi eseguono questo mantenimento. L’umano è nella stessa delegazione, dentro il passaggio, nell’invio, nel continuo scambio di forme, e questo statuto è distribuibile a tutto ciò che tocchiamo o che ci tocca: la natura umana è l’insieme dei suoi delegati e dei suoi rappresentanti, delle sue figure e dei suoi messaggeri. In questo mondo post-darwiniano, la forma umana ci è sconosciuta quanto quella non umana; quindi, è meglio parlare di (x)-morfismo invece di indignarsi quando gli esseri umani sono trattati come non umani o viceversa.

Le trasformazioni metamorfiche dei corpi – mescolanze sia fittizie che artefatte dell’umano e del non umano – ricorrono dai tempi arcaici a quelli contemporanei, assumendo forme demoniache che vanno dal magico al tecnologico. Metamorfosi testuali e quasi-oggetti tecnoscientifici sono entrambi trasformatori mediatori che eseguono operazioni di ordinamento sociomitico, negoziando le relazioni non tra cielo e terra, ma tra natura e società. I quasi-oggetti/soggetti partecipano a una continua produzione di mediatori culturali antichi e attuali il cui attributo comune è un propensione alla trasformazione metamorfica delle forme date e normative. Viste attraverso la lente dei concetti di rete, le immagini ricorsive delle metamorfosi risuonano con le evoluzioni operative, le mutazioni e le catastrofi occasionali, dei sistemi naturali e sociali.

 

L’estensione della socialità oltre le conversazioni umane alle comunicazioni di altri esseri viventi, che segnalano tutti i propri per sopravvivere, e alle cose non viventi che vengono travolte e ridefinite dalla natura e sistemi sociali, allora la vita e la sua evoluzione, compresa l’emergere e la messa in rete di menti e società in tutto lo spettro vivente, è tanto un fenomeno sociale quanto naturale. Quindi né la natura né la società potrebbero rimanere in essere senza le mediazioni traduttive che scorrono tra di loro: tutta la durabilità, tutta la solidità, tutta la permanenza dovranno essere pagate dai suoi mediatori. Quando si osserva che il reale e il demoniaco emergono e si fondono nelle costruzioni sia tecnologiche che narrative, le persone umane classiche – le essenze extra-ambientali dei sé, le anime mantenute da ideali stabilità corporee – diventano allo stesso tempo non moderne e postumaniste, attori relativizzati che svolgono funzioni operative e trasformazioni metamorfiche all’interno di reti e sistemi naturali/sociali. Questa non è una retrocessione dell’umano, ma un’elevazione del non umano a una corretta rappresentazione discorsiva.

 

IN/ANIMISMO

Una delle questioni controverse nel discorso sul cambiamento climatico è il problema dell’agire materiale o corporeo. Fino a tempi recenti, l’agire è stato il privilegio della coscienza umana. Ci siamo visti ontologicamente diversi dalla natura, cos’ come lo spirito dalla materia. Una tale distinzione ontologica giustificava le persone a usare la natura come risorsa per soddisfare i propri desideri. La Terra non era altro che un semplice sfondo per le azioni umane e la prosperità; tuttavia, il riscaldamento globale e il cambiamento climatico, che sono diventati abbastanza gravi da minacciare la nostra stessa esistenza, ci hanno costretti a riconoscere che la terra è agente a pieno titolo. Cosa c’è di più vivo e attivo di una tale catastrofe globale? Se teniamo presente l’attuale crisi ecologica, allora dobbiamo escogitare una nuova teoria dell’agire per riconoscere il ruolo attivo dei non umani.

Una cosa è separare l’agire dalla coscienza; tutt’altra cosa è separare l’agire dall’intenzionalità. Dobbiamo riconoscere che esiste una forma inconscia di intenzionalità. Più originale della nostra intenzionalità cosciente è l’intenzionalità corporea che ci unisce al mondo nel nostro rapporto con le cose intorno a noi. Il corpo stesso è intenzionale in quanto dirige e influenza gli altri, associandosi o dissociandosi da loro. Sullo sfondo dell’intenzionalità cosciente c’è l’intenzionalità corporea. Come si può pensare all’animismo senza tale intenzionalità corporea?

Il corpo non è materia inerte ma è il potere di influenzare gli altri e di esserne influenzato. Senza tale affettività, un corpo non avrebbe alcuna agenzia (il potere di agire). Agire è “fare” le cose, senza confondere “fare” con “funzione”. Se la funzione è neutra e meccanica, allora il fare implica una qualche forma di desiderio, scopo e intenzionalità. Spinoza lo chiamò conatus, uno sforzo per persistere nel suo essere, sia esso umano o non umano. L’agire dovrebbe essere disaccoppiato dai criteri di intenzionalità, soggettività e libero arbitrio. Per prevenire il monopolio umano dell’agire, dovremmo proporre che l’agire non sia una data qualità ma ciò che modifica altri attori attraverso il corso dell’azione. Non dovremmo chiederci se il libero arbitrio sia umano o non umano. Una domanda del genere non è solo irrilevante, ma anche dannosa per la nostra comprensione dell’esatta natura dell’agenzia. L’unico problema è che tradisce la sua richiesta metodologica di iniziare la nostra indagine senza preconcetti. Non si chiede se esista una modalità dell’intenzionalità diversa da quella umana. Non prende in considerazione l’intenzionalità corporea.

L’agenzia definisce la capacità del corpo di influenzare o modificare altri corpi, non distingue gli umani dai non umani né ha bisogno di intenzionalità per la sua azione.

Il cambiamento climatico dimostra che la terra, che abbiamo definito inerte, è più viva di ogni altra cosa. Quale agente è più animato, energico e imprevedibile del riscaldamento globale e dell’innalzamento del livello del mare? La Terra sta tremando! Ora ha di nuovo un soggetto. Il potere agentico della terra è una realtà innegabile, non una costruzione teorica. Abbiamo colpito durTutti i corpi, umani o non umani, sono conatus nella loro essenza. Conatus significa il potere del corpo di agire da solo o insieme ad altre cose per persistere nel suo essere. Tutti i corpi con capacità di influenzare o essere influenzati tendono ad associarsi con o dissociarsi l’uno dall’altro per aumentare e intensificare il loro conatus. Tale intenzione incarnata non è molto diversa dal concetto di anima vegetale e animale: una pianta ha un’anima vegetativa e un animale un’anima sensibile, le loro anime aspirano a crescere e a propagarsi. La terra, che gli umani credevano di aver disanimato e addomesticato, è animata di nuovo con più forza prima. L’animismo, quindi, non è solo un’alternativa alla moderna visione del mondo, ma è l’unica teoria legittima che può spiegare un fenomeno come i terremoti.

L’animismo è una visione del mondo che non discrimina tra materia animata e inanimata. Potremmo definire l’animismo come una credenza nelle anime personali che animano anche quelli che chiamiamo corpi inanimati. Tutti i corpi, umani o non umani, hanno vita e volontà. Abbracciando una visione così vitale della natura, intendiamo sostituire il concetto di “cosa” con “cosa-potere”: perché le cose hanno propensioni, o tendenze proprie. Non soccombono passivamente al desiderio umano di controllo, ma resistono alla sottomissione. Animali, piante e pietre sono corpi energici e intenzionali come gli umani, anche se in modi diversi. Che siano umani o non umani, animati o inanimati, tutti i corpi si sforzano di preservare il proprio essere.

 Ciò che tutti i corpi fanno, influenzando ed essendo influenzati in alleanza con gli altri, ha un significato in quanto riguarda la loro sopravvivenza o estinzione. La vita o la morte sono inseparabili dalla loro agenzia: il corpo con più connessioni con altri corpi è più reale e agentico dei corpi con meno connessioni o assemblaggi. Il corpo non è un’entità ma un processoin evoluzione più o meno efficace. Come non c’è corpo individuale senza assemblea, così non c’è assemblea senza corpo individuale. Il corpo non è chiuso in se stesso ma poroso e dinamico, e i suoi confini possono essere valicati.

Non sappiamo come spiegare l’animismo presente in materia inorganica come nelle pietre nelle macchine. Tuttavia, dobbiamo prendere atto che esiste una differenza significativa nell’intenzionalità materiale tra pietre e animali. Sebbene tutti i corpi senza eccezione si sforzino ugualmente di esistere, c’è un ampio spettro di differenze nel loro conatus, e sono singolari nei loro modi.

Ma può esserci animismo senza intenzionalità corporea?

L’intenzionalità corporea è uno dei tanti ibridi. Il corpo non è solo animato ma anche intenzionale. Sarebbe impensabile immaginare l’animismo senza lotte corporali. Non è sufficiente disumanizzare l’agire disaccoppiandolo dalla coscienza? Non abbiamo bisogno di separare l’animismo dall’intenzionalità: farlo significherebbe confonderlo con il meccanicismo.

La mostra è prodotta da Like A Little Disaster con il contributo di Romano Exhibit e del Ministero Federale Austriaco delle Arti e della Cultura. Si avvale della partnership della Fondazione Museo Pino Pascali.

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Controra Ep. IV, Installation view.

Controra Ep. IV and V

Controra Ep. IV and V

IV: Luca Bertolo, Paul Branca, Lula Broglio, Chiara Camoni, Daniela Corbascio, Roberto de Pinto, Giorgia Garzilli, Lucia Leuci, Agostino Quaranta, Marta Ravasi, Alessandra Spranzi
V: Johanna Billing, John Cage, Merce Cunningham, Giulia Essyad, Derek Jarman

A cura diLike A Little Disaster

5 Novembre – 31 Dicembre 2022 @Palazzo San Giuseppe, Polignano a Mare

La “controra” è uno spazio-tempo sospeso nel primo pomeriggio assolato del Sud Italia.
È quel momento della giornata in cui il sole proietta la sua ombra dritta e il corpo scompare lasciando spazio alla poesia, alla mitologia e alla paura dei demoni meridiani.
Sono le ore grevi dedicate ai sogni e agli incubi, alle allucinazioni e alle “fatamorgana”, le ore dell’indolenza inoperosa, esperenziata e performata come dissidenza anarchica rispetto all’efficienza del flusso produttivo dettata dal crono-capitalismo.

Ci si deve astenere dal frequentare luoghi pubblici ed è opportuno esiliarsi in casa propria, le imposte chiuse, in penombra e in silenzio. Si può sonnecchiare o dormire, ma non è la sola attività prevista; anzi, pensare, leggere anche poche pagine e meditare su ciò che si è letto, prendere qualche appunto… amarsi e dedicarsi all’ozio attivo. La controra è un ossimoro, dove l’otium propone un’inversione riflessiva al corso dei nostri pensieri.

press
Daniele Milvio, Altro Frontale, 2022, Argilla sintetica, metallo, legno, gesso, garza, acrilico, cera d'api, stearina, anilina, resina epossidica, acquerello, china su carta - 27 x 20 x 5 cm; Frontale, 2022, Argilla sintetica, metallo, legno, gesso, garza, acrilico, cera d'api, stearina, anilina, resina epossidica, acquerello, inchiostro di china su carta - 27 x 20 x 5 cm.

Controra Ep. III

Controra Ep. III

Leo Gabin, Daniele Milvio, Lucy Raven

A cura di Like A Little Disaster

16 Ottobre / 20 Novembre 2022 @Chiesa San Giuseppe and Palazzo San Giuseppe, Polignano a Mare

La “controra” è uno spazio-tempo sospeso nel primo pomeriggio assolato del Sud Italia.
È quel momento della giornata in cui il sole proietta la sua ombra dritta e il corpo scompare lasciando spazio alla poesia, alla mitologia e alla paura dei demoni meridiani.
Sono le ore grevi dedicate ai sogni e agli incubi, alle allucinazioni e alle “fatamorgana”, le ore dell’indolenza inoperosa, esperenziata e performata come dissidenza anarchica rispetto all’efficienza del flusso produttivo dettata dal crono-capitalismo.

Ci si deve astenere dal frequentare luoghi pubblici ed è opportuno esiliarsi in casa propria, le imposte chiuse, in penombra e in silenzio. Si può sonnecchiare o dormire, ma non è la sola attività prevista; anzi, pensare, leggere anche poche pagine e meditare su ciò che si è letto, prendere qualche appunto… amarsi e dedicarsi all’ozio attivo. La controra è un ossimoro, dove l’otium propone un’inversione riflessiva al corso dei nostri pensieri.

Ecotoni 02, Installation view

Ecotoni II

Ecotoni II

Daniela Corbascio, Jumana Manna, Nguyễn Trinh Thi.

A cura di Like A Little Disaster

2 Settembre / 30 Novembre 2022 @Foothold, Polignano a Mare

Ad un anno esatto da Ecotoni I, con Laurie Anderson, Ericka Beckman, Jenny Holzer, Joan Jonas, Agnieszka Polska e Jenna Sutela, Like A Little Disaster è orgogliosa di presentare il secondo capitolo della serie che coinvolge tre nuove artiste: Daniela Corbascio, Jumana Manna e Nguyễn Trinh Thi.

Una transizione tra due sistemi o biomi adiacenti ma diversi, gli ecotoni ci appaiono sia come dei cambiamenti graduali che come demarcazioni improvvise.
a più che indicatori di separazione o di connessione gli ecotoni sono zona di fecondità, creatività, trasformazione; del divenire assemblando, moltiplicandosi; di divergere, differenziare, rinunciare.
Gli abitanti di un ecotono sono zone per pionieri coraggiosi.
Un ecotono è contemporaneamente sia un passato anticipato, un futuro ricordato.

Attraverso pratiche, poetiche e campi semantici diversi, le tre artiste in mostra strutturano territori di transizione o tensione fra due o più ecosistemi comunità natural-culturali eterogenee. L’ecotono diventa così la strategia e il metodo più efficaci per riflettere sulle relazioni interlacciate tra natura e cultura.

“Qualcosa accade.
Estuari, zone di marea, zone umide: sono tutti spazi liminali dove “due sistemi complessi si incontrano, si abbracciano, si scontrano e si trasformano.”
Eco: casa. Tono: tensione.
Dobbiamo imparare a sentirci a nostro agio nella tremante tensione dell’intermedio. Nessun’altra casa è disponibile. Tra natura e cultura, tra biologia e filosofia, tra l’umano e tutto ciò contro cui ci scontriamo, tutto ciò da cui ci proteggiamo disperatamente, tutto ciò in cui ci gettiamo, naufragati e incauti, guardando, stupiti, come la nostra pelle diventa più sottile.”

 

 

Problematico trovare una definizione esaustiva per la ricerca di Daniela Corbascio. Il suo lavoro fagocita linguaggi, segue un personale flusso di coscienza, regola e orchestra le forme della memoria, facendoli coesistere in perfetti bilanciamenti. La sua attitudine dominante sembra quella di una ricercatrice indipendente che, in modo originale e antiaccademico, individua un incipit e poi segue un’evoluzione dettata dall’alternarsi di rigore modulare, casualità e coincidenze. Daniela ha una straordinaria abilità nell’appropriarsi di uno spazio fisico nel quale organizza rigorosamente forme e materiali ambivalenti, fra ciò che ha costruito e ciò che ha trovato, raccolto, collezionato, conservato. La logica materiale-immateriale di questi ecosistemi rende possibile una penetrazione filosofica nel rapporto tra cose, segni, linguaggi e percezione. Le sue installazioni sembrano operare come palcoscenici fenomenologici perfettamente sintonizzati con gli spazi architettonici circostanti.
Gli interventi di Daniela sono memoria che si tramuta in paesaggio – non inteso come scena ma come spazio contingente da attraversare nel tempo – si accompagna una memoria fatta di forme; il minimalismo con le sue forme basilari e il loro posizionamento in galleria, il post-minimalismo con la corruzione di queste stesse forme, il concettuale, pur non aderendo alla dematerializzazione dell’opera, la land art, l’arte povera, ecc. Una memoria di forme in gioco in un numero di pratiche o semi-pratiche scultoree connaturate agli artisti delle ultime generazioni con cui Corbascio condivide anche la prassi del “collezionare” come uno degli strumenti per raggiungere uno stato di autorialità e in questa poetica l’assemblaggio, la trasformazione; la moltiplicazione divergente e differenziata divengono territori fecondi per nuovi misticismi.
La sua pratica attua un’operazione di riposizionamento che offre nuove prospettive a ciò che esiste già. Prendere possesso, modificare e ripensare oggetti, elementi e forme della realtà fenomenica contrassegna la loro azione che, per mezzo di tali passaggi, ci permette di pensare la realtà come un gioco di differenze, mentre normalmente la pensiamo in termini di somiglianza, analogia, identità. Corbascio indaga la possibilità di attribuire un nuovo scopo ad elementi prelevati dalla realtà, rimuoverli intenzionalmente dal dominio della percezione automatica e renderli astratti in modo da mettere quegli elementi e i loro rapporti, usi, connotazioni in mostra.
Tramite la dissociazione di oggetti e concetti, l’artificio delle opere in mostra rende la percezione lenta e permanente, generando una strana contraddizione poiché gli stessi concetti e oggetti sono stati frammentati o separati dal loro uso meccanico al fine di poter sostenere uno sguardo più prolungato e attento. Come i paradossi, i suoi interventi hanno la capacità unica di amplificare le contraddizioni, si dichiarano apertamente attraverso la loro con-fusione, in quanto è lo spettatore che deve soffermarsi e pensare a quali potrebbero essere le loro connessioni e i loro sviluppi. Ciò che confonde nelle opere in mostra è il fatto che ci presentano un commento attraverso l’attribuzione di nuove intenzioni, mentre allo stesso tempo ci offrono una diramazione di sensazioni tale da consentirci varie letture, poiché attivano una reazione a catena di riflessioni.
Tali premesse chiamano in causa questioni complesse come il rapporto copia-originale, visto e interpretato dall’artista come reciprocamente costitutivo tra la cosa e il suo doppio, la cosa e l’ombra. Mettendo continuamente in discussione la logica della rappresentazione, Daniela propone ripetizioni, doppi, oggetti e soggetti straniati, che accolgono molteplici realtà al proprio interno o si scompongono, si scollegano e diventano tutto, o qualsiasi altra cosa; alterando in infiniti modi la logica dell’originale e della copia, in modo tale da negare ogni immagine normativa del pensiero ed emanciparlo dall’asservimento a e dalla gerarchia di ogni forma-immagine predefinita.

Maria Annina #1
Cristal, cotone, legno, ferro 127 x 94 cm. – 2022

Maria Annina #2
Pelle, plastica 45 x 30 cm. – 2022

Maria Annina #3 
Ferro, legno 260 x 70 x 90 circa cm. – 2022

 

 

Jumana Manna è un artista palestinese che lavora principalmente con il cinema e la scultura. Il suo lavoro esplora come il potere si articola attraverso le relazioni, spesso concentrandosi sul corpo e sulla materialità in relazione alle narrazioni della costruzione dello stato e alle storie del luogo, alla terra e alla materia in rapporto alle eredità coloniali e alle storie dei luoghi.
Attraverso sculture, film e testi, Manna mette in discussione i paradossi delle pratiche di conservazione, in particolare nei campi dell’archeologia, della scienza e del diritto. La sua ricerca tiene conto della tensione tra le tradizioni moderniste di categorizzazione e conservazione e la potenziale “sregolatezza” delle rovine come parte integrante della vita e della sua rigenerazione.

Wild Relatives
64min, HD video, 2018

Nelle profondità della terra, al di sotto del permafrost artico, semi provenienti da tutto il mondo sono conservati nello Svalbard Global Seed Vault per fornire un supporto in caso di disastro. Wild Relatives parte da un evento che ha suscitato l’interesse dei media in tutto il mondo: nel 2012 un centro internazionale di ricerca agricola è stato costretto a trasferirsi da Aleppo al Libano a causa della rivoluzione siriana trasformata in guerra e ha iniziato un laborioso processo di semina della collezione di backup delle Svalbard. Seguendo il percorso di questa transazione di semi tra l’Artico e il Libano, una serie di incontri svela una matrice di vite umane e non umane tra questi due luoghi lontani della terra. Il film cattura l’articolazione tra questa iniziativa internazionale su larga scala e la sua attuazione locale nella valle della Bekaa in Libano, portata avanti principalmente da giovani donne migranti. Il ritmo meditativo stimola pazientemente le tensioni tra stato e individuo e ideologie, tra gli approcci industriali e biologici al risparmio di semi, ai cambiamenti climatici e alla biodiversità, testimoniati attraverso il viaggio di questi semi.

 

NGUYEN Trinh Thi è una regista e artista video/mediale indipendente con sede ad Hanoi in Vietnam. Nella sua pratica, esplora il potere del suono e dell’ascolto, e le molteplici relazioni tra immagine, suono e spazio, con continui interessi per la memoria, la rappresentazione, il paesaggio, l’indigeneità e l’ecologia. Il suo lavoro indaga il ruolo della memoria in complesse storie culturali.
Nguyen ha studiato giornalismo, fotografia, relazioni internazionali e cinema etnografico negli Stati Uniti. Nel 2009 ha fondato Hanoi DOCLAB, un centro indipendente per il cinema documentario e l’arte delle immagini in movimento ad Hanoi.
È nota per il suo approccio stratificato, personale e poetico alle storie controverse e agli eventi attuali attraverso esperimenti con l’immagine in movimento. Considerata una delle pioniere del cinema indipendente del suo paese d’origine, Thi è considerata la videoartista più importante della scena artistica contemporanea del Vietnam.
Ispirati dalla sua eredità, i suoi pezzi sono potenti e inquietanti e si concentrano su questioni sociali e culturali, in particolare la complessa e traumatica storia del Vietnam e le sue conseguenze nel presente. Nei suoi film documentari più lunghi, utilizza immagini calme e tranquille mentre evita le voci fuori campo per consentire alla gente del suo paese di parlare direttamente alla telecamera. La sua pratica diversificata ha costantemente indagato il ruolo della memoria nella necessaria rivelazione di storie nascoste, spostate o male interpretate, e ha esaminato la posizione degli artisti nella società vietnamita.

How to Improve the World (2021)
Video monocanale, colori e b/n, suono, loop, 47 minuti

Ambientato negli altopiani centrali del Vietnam, dove vive una grande concentrazione di gruppi di indigeni, How to Improve the World è un film sull’ascolto. Il film riflette sulle differenze nel modo in cui la memoria viene elaborata tra la cultura dell’occhio e quella dell’orecchio, osservando la perdita di terra, la riduzione del territorio boschivo, così come il modo di vivere delle popolazioni indigene in questa parte del mondo. ‘Ti fidi di più dei suoni o delle immagini?’ chiede Nguyễn, fuori campo, a sua figlia, che risponde ‘delle immagini, mamma’. A proposito del predominio culturale delle immagini a spese di altre modalità sensoriali, Nguyen ha detto: “Dato che le nostre culture globalizzate e occidentalizzate sono diventate dominate dai media visivi, sento il bisogno e la responsabilità come regista di resistere a questo potere narrativo dell’immaginario visivo, e cerco un approccio più equilibrato e sensibile nella percezione del mondo, prestando maggiore attenzione ai paesaggi sonori, in linea con i miei interessi per l’ignoto, l’invisibile, l’inaccessibile e nelle potenzialità’.

Letters from Panduranga (2015)
Video monocanale, colore e b/n, audio, 35:00

Il film-saggio, realizzato sotto forma di scambio epistolare tra un uomo e una donna, è stato ispirato dalla decisione del governo vietnamita di costruire le prime due centrali nucleari del Paese a Ninh Thuan (ex Panduranga), proprio nel cuore spirituale degli indigeni Cham, minacciando la sopravvivenza di questa antica cultura matriarcale indù che risale a quasi duemila anni fa.
Al confine tra documentario e finzione, il film porta e sposta l’attenzione del pubblico tra primo piano e sfondo, tra ritratti intimi e paesaggi lontani, offrendo riflessioni sul lavoro nei campi, l’etnografia, l’arte e il ruolo dell’artista.
Intrecciando circostanze tra passato, presente e futuro, il film svela anche l’esperienza sfaccettata, sia storica che e in corso, del colonialismo ed esamina le idee centrali di potere e ideologia nella nostra quotidianità.

Fifth Cinema (2018)
Video monocanale, colore e B&N, audio, 56 minuti
Con testo di Barry Barclay (“Celebrating the Fourth Cinema”, 2003)

Fifth Cinema inizia con una dichiarazione tranquilla “Sono un regista, come sai”. Quel testo e quello che segue, del regista maori Barry Barclay, che ha coniato il termine “Quarto cinema” per distinguere il cinema indigeno dalla struttura consolidata del “Primo, Secondo e Terzo Cinema”, fornisce una struttura al film saggio ibrido di Nguyen che si muove su cinematografie multiple e terreni di attualità. Evitando la voce a favore della parola scritta e giustapponendo immagini in movimento della figlia della regista con immagini d’archivio di donne vietnamite viste attraverso l’obiettivo degli “ufficiali di nave”, il film conduce lentamente lo spettatore attraverso una narrazione di colonialismo, indigeneità e limitazioni cinematografiche nella rappresentazione.

Statement
Faccio questo film come cittadina – del Vietnam e del mondo – come regista, artista, donna, madre. Ci sono più identità. Mi interessa fondere le mie identità con quelle di Barry Barclay, per poter vedere le cose con sensi e prospettive più ampi. Parlo dal punto di vista di chi, come ognuno di noi, può ssere potenzialmente l’oppresso; e l’oppressore.

Faccio film che si confrontano con l’identità, la storia e le memorie locali e nazionali, ma allo stesso tempo affrontano qualcosa che è universale. Cerco di trovare le regole sottostanti che governano le nostre vite, mondi e realtà. Il modo in cui guardiamo le cose.

Mi interessa anche l’ignoto, l’invisibile, l’inaccessibile e le potenzialità. Come ha detto Barclay, “Ma credo che in Fourth Cinema si stia affermando qualcos’altro a cui non è facile accedere”.

In questo film penso che Quarto cinema e l’indigeneità funzionino più a livello metaforico, rappresentando la bellezza e la saggezza in un mondo mondo che richiede rispetto. Una metafora di tutte le cose oppresse: le donne, le minoranze, i colonizzati.

Mi piace viaggiare attraverso lo spazio, il tempo ei generi per trovare tutte queste connessioni e identificare le strutture sottostanti. Penso che sfortunatamente siamo governati universalmente da strutture di potere, dominio e patriarcato.

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Luca Francesconi, Installation view, (Cinque Cafoni e Capurale), Acciaio inossidabile lavorato a mano, Verdure, Dimensioni variabili.

Controra Ep. I

Controra Ep. I

Luca Francesconi, Jon Rafman, Sara Sadik, Amalia Ulman

A cura di Like A Little Disaster

7 Giugno / 25 Luglio 2022 @Palazzo San Giuseppe and Chiesa di San Giuseppe, Polignano a Mare

La “controra” è uno spazio-tempo sospeso nel primo pomeriggio assolato del Sud Italia.
È quel momento della giornata in cui il sole proietta la sua ombra dritta e il corpo scompare lasciando spazio alla poesia, alla mitologia e alla paura dei demoni meridiani.
Sono le ore grevi dedicate ai sogni e agli incubi, alle allucinazioni e alle “fatamorgana”, le ore dell’indolenza inoperosa, esperenziata e performata come dissidenza anarchica rispetto all’efficienza del flusso produttivo dettata dal crono-capitalismo.

Ci si deve astenere dal frequentare luoghi pubblici ed è opportuno esiliarsi in casa propria, le imposte chiuse, in penombra e in silenzio. Si può sonnecchiare o dormire, ma non è la sola attività prevista; anzi, pensare, leggere anche poche pagine e meditare su ciò che si è letto, prendere qualche appunto… amarsi e dedicarsi all’ozio attivo. La controra è un ossimoro, dove l’otium propone un’inversione riflessiva al corso dei nostri pensieri.

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LUCA FRANCESCONI

Nel suo lavoro Luca Francesconi analizza i legami tra uomo e natura, spazio e tempo, le opere d’arte ed i materiali, così come le dinamiche nello spazio espositivo. Ha spesso preso come punto di partenza riferimenti primordiali come fiumi, cicli lunari, i campi e l’agricoltura. Nelle sue mostre questi temi divengono pietra angolare, concreta e simbolica, di un gruppo di opere che coinvolgono esplorazioni spaziali, la fisica e le sue relazioni con il tempo. Lo stesso display espositivo, come oggetto estetico, è una componente centrale delle sue speculazioni.
Attraverso la sua ricerca Francesconi esamina i processi naturali presenti nella filiera e sistema produttivo del cibo, la sua distribuzione, la sua consumazione e le implicazioni umane che essa comporta. Il tema della trasformazione (naturale), come la decomposizione, i vari processi di fermentazione e il loro valore simbolico, servono come punto di partenza per esaminare i modi di produzione e consumo contemporanei. Legato al mezzo della scultura e dell’installazione scultorea, Francesconi riunisce vari tipi di elementi naturali, che fanno eco agli aspetti formali e al funzionamento del corpo umano, sottolineando al contempo il nostro rapporto in dissolvenza con la natura e i suoi ecosistemi. Proponendo nuove alternative di produzione e consumo sostenibili dal punto di vista ambientale, Francesconi mira a rianimare il nostro rapporto con la terra e l’ambiente in generale.

Il gruppo di sculture in mostra (cinque “Cafoni” e il “Capurale”) è composto da figure antropomorfe stilizzate in acciaio inox lavorato artigianalmente e con la testa di ortaggio intercambiabile. Questi braccianti sono inseriti in una realtà temporale e produttiva in cui si è persa l’identità professionale e personale, quindi anche il corpo perde forma e sostanza per trasformarsi in un semplice strumento atto alla produzione su larga scala.
Le sculture indagano il confine tra essenzialità e sovrapproduzione, tra un mondo in cui il rapporto uomo – natura era ancora 1 a 1, quando ciò che governava era la ciclicità delle leggi naturali a cui l’uomo si adattava per una produzione destinata al semplice sostentamento, senza intaccare gli equilibri della catena alimentare, e quello della contemporaneità, un tempo di asettiche eccedenze monodirezionali.

 

JON RAFMAN

Jon Rafman (*1981) è acclamato globalmente per un’opera poliedrica che comprende video, animazione, fotografia, scultura e installazione. Le sue opere quasi antropologiche, che spesso incorporano immagini e materiale narrativo provenienti da Internet, indagano sulle tecnologie digitali e sulle comunità che le creano, concentrandosi sulle perdite, i desideri e le fantasie che modellano le nostre vite infuse di tecnologia. L’artista di Montreal rivolge uno sguardo empatico ma critico all’era di Internet, indagando su esperienze di alienazione, nostalgia, solitudine e dolore.
La sua complessa interpretazione delle tecnologie Internet è implicita anche nei suoi primi lavori. The Nine Eyes of Google Street View (2007-oggi), una raccolta in continua crescita di immagini fotografiche e un sito Web costantemente aggiornato, lo vede frugare tra immagini insolite prelevate dalla funzionalità di visualizzazione stradale panoramica di Google Maps. Come un flâneur cibernetico si imbatte in momenti sorprendenti di umanità, vulnerabilità e talvolta bellezza; le sue scoperte includono immagini di bambini che giocano in quartieri fatiscenti, cavalli e renne che vagano per le strade, paesaggi poetici, prostitute che brontolano e arresti della polizia. Mostrando queste immagini acquisite automaticamente sotto una nuova luce, Rafman rivela la grammatica visiva e i punti ciechi della tecnologia di Google.

Molti dei video successivi di Rafman esplorano aspetti meno noti del mondo digitale. Un esempio calzante è Codes of Honor (2011), una breve docu-fiction che combina filmati reali con immagini della piattaforma online Second Life per raccontare la vita di un videogiocatore. Un’altra è la trilogia di saggi cinematografici composta da Still Life (Betamale) (2013), Mainsqueeze (2014) ed ERYSICHTON (2015), uno studio visivo su diverse nicchie di cultura Internet tra cui cosplayer, appassionati di pornografia hentai o persone che perseguono oscuri feticci sessuali.
Non tutte le opere dell’artista utilizzano immagini trovate. Gli oggetti a forma di busto della sua serie New Age Demanded (2012-oggi) evocano sculture moderne classiche, benché realizzati utilizzando tecniche e tecnologie di imaging digitale tra cui la stampa 3D o l’intaglio basato su modelli 3D. Una serie di fotografie su larga scala intitolata You Are Standing in an Open Field (2015) contrappone sudicie tastiere di computer e scrivanie piene di spazzatura a sfondi di paesaggi pastorali. Sticky Drama (2015), un cortometraggio sulla perdita dei ricordi archiviati digitalmente, è il primo film live-action di Rafman.
Molte delle opere più recenti dell’artista utilizzano l’animazione 3D. Gli esempi includono il suo Dream Journal 2016–2019, per il quale Rafman documenta i suoi sogni quotidiani prima di mescolarli con narrazioni trovate nella mitologia, nei videogiochi e nelle serie TV. I video-saggi animati Legendary Reality (2017), SHADOWBANNED (2018) e Disasters under the Sun (2019) offrono uno sguardo preoccupato sull’attuale condizione umana con un linguaggio visivo che ricorda i film di fantascienza.

I film e i video di Rafman sono spesso impostati su colonne sonore di musica elettronica sperimentale ipnotica di artisti tra cui Oneohtrix Point Never o James Ferraro. Sebbene siano disponibili online, sono sperimentati in modo più efficace all’interno di dimensioni scultoree appositamente progettate. Queste installazioni enfaticamente fisiche spingono gli spettatori in cabine, li trasportano nella camera da letto di un tipico adolescente nordamericano, li invitano a sdraiarsi su sedili in schiuma di poliuretano o in pozze di palline di plastica.
Tutte le opere di Jon Rafman esplorano le vicissitudini dell’autoformazione nell’era digitale. Si chiedono cosa significhi vivere in un’epoca in cui le tecnologie strutturano ogni nostra ora di veglia, o in cui il prezzo di un facile appagamento dei nostri bisogni è la solitudine davanti allo schermo di un computer. Esplorano l’esperienza onnipresente di vivere in un mondo in cui nulla è permanente, ma nulla è dimenticato.

Poor Magic (2017)
Disasters Under the Sun (2019)

Jon Rafman mette in scena mondi distopici generati dal computer in cui l’orrore è diventato parte della vita di tutti i giorni.
Disasters Under the Sun (2019) e Poor Magic (2017), che nella mente di Rafman formano un dittico, risuonano in modi inquietanti e spaventosi con l’attuale crisi che stiamo vivendo. Il primo, presentato alla Biennale di Venezia nel 2019, è stato recentemente acquisito dal MAC (Musée d’Art Contemporain de Montréal). Entrambi i film hanno un tono più cupo rispetto ai suoi primi lavori, scavando negli angoli più oscuri del Web. Mentre le sue installazioni, fotografie e video degli ultimi anni proponevano una visione malinconica e ironica delle convenzioni sociali e delle comunità virtuali, questi due lavori offrono una prospettiva più critica. I film ritraggono una distopia post-umana con avatar 3-D senza volto e privi di emozioni, controllati da forze esterne, completamente alla mercé dell’arbitrarietà continuamente torturati in uno spazio digitale astratto. In quello che è essenzialmente un lamento poetico, Rafman affronta la coscienza frammentata di un’esistenza post-fisica e smaterializzata intrappolata in un mondo postindustriale. I film mostrano un’immagine terrificante di un futuro in cui tutta l’umanità viene caricata in un purgatorio virtuale e abusata all’infinito. O è anche una rappresentazione brutale del momento presente e dell’effetto che un mondo dominato da algoritmi ha sulla nostra carne e sulla nostra psiche?

Rafman ci mostra l’alienazione che separa le persone attraverso mezzi digitali e tecnologici e dissolve ogni senso di comunità. In contrasto con le visioni utopiche del futuro che hanno caratterizzato la prima modernità, Rafman progetta scenari post-umani in cui le persone esistono solo come avatar digitali. Dimostra gli effetti dannosi che un mondo governato da algoritmi ha sul corpo e sulla mente.

Poor Magic e Disaster Under the Sun rappresentano una resa bellissima ma terrificante della coscienza contemporanea, indicando la deriva svogliata della civiltà oltre il corporeo e l’infinito desiderio della tecnologia di penetrare e replicare artificialmente l’essenza umana. Le simulazioni di folla generate al computer corrono frenetiche in una ripetizione onirica, mentre un viaggio endoscopico in 3D ci porta attraverso i passaggi più intimi del corpo.

 

SARA SADIK

Attraverso narrazioni fittizie filmate o interpretate, che vanno dai documentari alla fantascienza fino ai reality tv e l’uso massiccio di chromakey, modulazioni 3D e altre tecniche di post-produzione CGI, Sara Sadik affronta questioni legate all’adolescenza e alla mascolinità, documentandone i misteri e decostruendone le mitologie sociali.
Il lavoro di Sara Sadik è radicato in ciò che lei designa con il termine “beurcore”: l’essenza della cultura giovanile dei francesi della classe operaia appartenenti alla diaspora magrebina, di cui cattura e analizza le specificità per tradurle in concetti visivi e materici. Il suo lavoro unisce video, performance, installazione e fotografia, per esplorare le manifestazioni del beurcore, mentre i suoi riferimenti abbracciano musica, linguaggio, moda, social network e fantascienza. Partendo dall’analisi semiologica e sociologica della “beurness”, Sadik attua un processo di dirottamento di questi cliché sociali decostruendoli e reintegrandoli nelle finzioni. Sadik reimpiega, riconnette e ri-problematizza i simboli sociali e l’estetica visiva, i sistemi economici e i linguaggi utilizzati e/o creati da questa comunità, al fine di creare situazioni immaginarie e surreali che si svolgono nel presente o nel prossimo futuro.
Anche se radicate in una prospettiva locale, le sue sceneggiature, i suoi film e le sue interpretazioni affrontano questioni più ampie, come la politica delle identità e dei comportamenti che mancano di rappresentazione mediatica. Attraverso le sue immagini generate al computer e i riferimenti ludici a oggetti della cultura popolare conteporanea tra cui Capri-Sun, Dragon Ball e abbigliamento Kalenji, Sadik costruisce i suoi scenari immaginari, eludendo il colonialismo che ha usurpato territori fisici e virtuali.
Grazie all’uso tattico delle nuove tecnologie e dei social media, Sadik riesce a creare nuovi spazi per rappresentazioni più eque.

Khtobtogone, 2021, 16′
Esplorando le possibilità di utilizzare la modalità cinema del videogioco Grand Theft Auto V, noto per la sua violenza, misoginia e razzismo, Khtobtogone (2021) descrive la vita quotidiana dei giovani membri della classe operaia franco-maghrebina e le loro montagne russe emotive e politiche. La narrazione del film si svolge a Marsiglia e racconta la storia d’amore tra il protagonista Zine e la ragazza dei suoi sogni, Bulma. Ma nella narrazione introspettiva, Zine riflette in modo più ampio sulle aspettative agonizzanti e contraddittorie che modellano il suo futuro, sulle battaglie e le lotte che ha dovuto affrontare per ritrovare la fiducia in se stesso e l’amore per se stesso, così come sul raggiungimento della maggiore età nella comunità magrebina di Marsiglia. Il racconto di Zine realizzato da Sadik è attento alle tensioni esercitate dalle norme razziali, di classe e di genere e al modo in cui queste norme differiscono contestualmente. L’amore che Zine prova per i suoi amici maschi è incompatibile con l’amore che prova per Bulma, anche se le parole che usa per descrivere i suoi sentimenti per loro non sono dissimili in ogni caso.

La grafica di Grand Theft Auto V ha una qualità impersonale che fa sembrare trasferibile la vulnerabilità di Zine ad altre identità/identificazioni, nonostante la specificità del linguaggio, i marcatori culturali e le sue relazioni personali. I lievi difetti nelle immagini ignorano il comportamento ipermascolino e la violenza machista tipiche delle narrazioni di GTA, poiché Zine passa ore in lacrime per il crepacuore, per il suo desiderando essere visto dagli altri in una luce positiva e l’imperativo di essere migliore, e diventare “la migliore versione di me stesso”.

Khtobtogone è un film emotivo, che utilizza una tecnologia futuristica come vettore per visualizzare le reali lotte e i sogni di un ragazzo che si configura come un prototipo con una voce intima capace di immergerci nelle introspezioni e nelle tensioni emotive quotidiane che deve affrontare.

Zine va in palestra, ma si sente un corpo senza cuore “A volte ho l’impressione di essere solo un corpo, un corpo vuoto, disumanizzato. Un corpo che non ha diritto di sentire, che esiste solo per vivere in silenzio”. Dietro la sua corporatura massiccia, vestita con una tuta firmata e una marsupio alla moda, c’è una ragazzo emotivo che cerca di “diventare un uomo”. Zine è pieno d’amore – per i suoi amici e per la sua donna – ma è afflitto dai demoni interiori e dalla sua paura di non avere uno scopo nella vita. Mentre consegna il cibo sulla sua moto, Zine finge di essere nel gioco GTA, mentre sfreccia attraverso lo splendido scenario costiero, ma gli sguardi e i commenti condiscendenti dei clienti lo abbattono. Attraverso il suo ritratto sensibile e le giustapposizioni fantasiose, Sadik descrive parallelamente e in modo avvincente le difficoltà e le problematiche della mascolinità contemporanea e offre un’analisi acuta ma al contempo empatica delle pressioni sociali e del fardello delle aspettative sulle spalle dei giovani adulti in una società post-migrante.

 

AMALIA ULMAN

Amalia Ulman è un’artista di origine argentina che vive e lavora a Los Angeles. Nel 2014 ha scosso la community IT Girl di Instagram. Il suo account Instagram meticolosamente curato che descriveva dettagliatamente la sua scialba ma sempre più travagliata vita da fashionista, si è rivelata una bufala, perpetuata per il bene della sua serie performativa “Excellences and Perfections”.

*The Future Ahead, Improvements for the further Masculinization of Prepubescent Boys*, 2014

The Future Ahead, che potrebbe essere descritto come una video-lezione-lecture performativa, approfondisce questioni che riguardano la rappresentazione (fem)maschile e la sessualità mediata digitalmente nella cultura pop contemporanea e nei social media.
Il lavoro, simile ad altri video saggi dell’artista, utilizza il formato di presentazione powerpoint per creare un collage di found footage (tra cui le immagini dal blog ironico LESBIANS WHO LOOK LIKE JUSTIN BIEBER), gif animate ed effetti sonori economici. Raccontando una storia di fantasia sul protagonista Justin Bieber con una voce eccessivamente sessualizzata e infantilizzata utilizzando dati medici falsi, il video esplora le tendenze online polarizzanti prevalenti nel 2014, quando i ragazzi hanno iniziato ad accentuare le linee della fronte sui social media. Le ragazze adolescenti, d’altra parte, ricevevano botox per prevenire le rughe sulla fronte anche prima della loro comparsa. Assurdo dall’inizio alla fine, The Future Ahead è un ottovolante di voci, umorismo da ufficio e teorie del complotto sui ruoli di genere e la chirurgia plastica.

The Future Ahead, si concentra sul raggiungimento della maggiore età di Justin Bieber come celebrità dei social media. In risposta alla fissazione culturale sull’aspetto angelico di Bieber da bambino e una diminuzione della sua rilevanza durante la pubertà, Ulman propone che quando Bieber aveva circa 17 anni abbia sviluppato un’espressione chiamata “Office Blind Pose”, in cui alza le sopracciglia in modo che la sua fronte ricordando le tende veneziane. Queste rughe sul suo viso da bambino proiettano un’aria di maturità, che Ulman collega alla costruzione sociale della mascolinità, contrastando un meme crudo all’epoca in cui Bieber era segretamente lesbica. La strategia OBP sembra una battuta finale fino a quando Ulman non compila alcune dozzine di foto di Bieber che fa questa faccia – che, va detto, sembra ridicola – insieme a clip di vlogger adolescenti che la imitano. Ulman li sfoglia uno per uno in un tipo di analisi ossessiva e ironica che di solito non è diretta verso uomini cis che si presentano maschili (come richiama la GIF virale di Paris Hilton che fa la stessa faccia in dozzine di fotografie).

La “distruzione dell’esperienza” descritta nella lecture – interventi di chirurgia plastica volti ad appianare le rughe sui volti delle donne, l’opposto della traiettoria di Bieber – è anche un complemento clinico agli onnipresenti promemoria dell'”orologio biologico”. Ulman non condanna riduttivamente queste procedure; invece, sottolinea come siano parte di un’industria costruita su aspettative culturali profondamente radicate. Fa perno su una tradizione più ampia di combattere chirurgicamente la normatività di genere citando Genesis P-Orridge: “I corpi sono solo una valigia economica per la coscienza”. Ma questo ideale post-ideologico si scontra con quanto le norme siano pesantemente sostenute da una cultura basata sull’immagine, anche quando si modella un nuovo sé. “Possiamo giudicare Justin per essersi adattato alla costruzione socioculturale del genere?” chiede Ulman, come se cercasse una via d’uscita. Non è impossibile, ma il primo passo è riconoscere la radice della questione.

Amalia Ulman studia le questioni riguardanti l’identità di genere in un’opera basata sulla commozione online che circonda la presunta transizione di genere di Justin Bieber. Un’affascinante ricerca sull’influenza di Internet sulla percezione della mascolinità nella società contemporanea. Uno studio che mette in discussione la mascolinità della pop star e affronta la finzione della biofemminilità.

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Baitball 02, installation view.

Baitball 02

Baitball 02

Progetti di: 427 Gallery, Riga (LV), Acappella, Naples (IT), ADA, Rome (IT), Almanac, London (UK) / Turin (IT), AlterSide, Seoul (KR), Alyssa Davis Gallery, New York (US), Apparatus Project, Chicago (US), A.ROMY, Zurich, (CH), Artemis Fontana, Paris (FR), Baader-Meinhof, Omaha (US), Bad Water, Knoxville, (US), Berlinskej Model, Prague (CZ), Beverly’s, New York (US), Big Window, New York (US), Biquini Wax, Mexico City (MX), Brockley Gardens, London (UK), Cassata Drone, Sicily (IT), City Galerie, Wien (AT), Clima, Milan (IT), Coaxial Arts Foundation, Los Angeles (US), Cordova, Barcelona (ES), Dark Zone, New York (US), Deformal (New York, US/Online), Discordia Gallery, Melbourne (AU), Display, Berlin (DE), Dungeon, Detroit (US), eastcontemporary, Milan (IT), East Hampton Shed, New York (US), Et al., San Francisco (US), Flip project, Naples (IT), Galleria Monica De Cardenas, Milano (IT), Galeria Wschód, Warsaw (PL), Garthim, Los Angeles (US), Gern en Regalia, New York (US), Ginny on Frederick, London (UK), Giorgio Galotti, nomadic (IT), Giulietta, Basel (CH), Harlesden High Street, London (UK), haul gallery, New York (US), Interface, Berlin (DE), ISSMAG, Moscow (RU), Jargon Projects, Chicago (US), Jir Sandel, Copenhagen (DK), Like A Little Disaster, Polignano a Mare (IT), Lonesome Dove, New York (US), mcg21xoxo, Matsudo, (JP), Mery Gates, New York (US), Mouches Volantes, Köln (DE), Nero Edition + Francesco Urbano Ragazzi, Milan (IT), Nico Gallery, Bari (IT), Nights, Nomadic (IT), Nighttimestory, Los Angeles (US), No Place Gallery, Columbus, (US), No gallery, New York (US), Outo olo, Helsinki (FI), Pina, Wien, (AT), PANE project, Milan (IT), Patara Gallery, Tbilisi (GE), Peach, Rotterdam (NL), Plague Space, Krasnodar (RU), Prairie, Chicago (US), Regatta 2, Düsseldorf (DE), Rivera, Mexico City (MX), Ron Providence, New York (US), Sajetta, Online/Nomadic, Sentiment, Zurich (CH), Shore, Wien (AT), Sydney Sydney, Sydney (AU), Studiolo Project, Milan (IT), Sunny NY, New York (US), The Gallery Apart, Rome (IT), THE POOL, İstanbul (TR), The Tail, Brussels (BE), Ultrastudio, Pescara (IT), Una Galleria, Piacenza (IT), unanimous consent, Zurich, (CH), Underground Flower, Perth (AU), Uve Studios, Buenos Aires (AR), Vin Vin Gallery, Wien (AT), Window Mine, Reno (US) and many more

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17 Gennaio / 15 Marzo 2022 @Palazzo San Giuseppe, Polignano a Mare

Baitball è un ibrido, un incrocio tra una fiera d’arte progettuale a lungo termine e una mostra curata collettivamente, è una dimensione condivisa, un modo per vivere e coevolvere insieme attraverso le differenze, sognando nuovi mondi dove divenire-con-l’altro.
Baitball 02 coinvolge 80 tra gallerie, project space, artist-run space, collettivi, curatori e istituzioni artistiche e oltre 300 artisti, attivisti e ricercatori chiamati a confrontarsi con l’immagine metaforica di una lunga tavolata destinata ad un pranzo collettivo immaginario che apre a speculazioni intorno ai concetti di collaborazione e di auto-organizzazione attraverso l’atto della condivisione del cibo e le pratiche del commensalismo e della convivialità.

Il cibo e la sua condivisione stimolano inoltre una stringa di rimandi e collegamenti che spaziano dall’antropologia alla zoologia, dalla religione, al sacro e alla magia. Le stesse idee di cibo e nutrimento sollevano urgenti interrogativi sul tessuto interlacciato che si ricopre su politica, economia, natura e strutture del potere.

La lunga tavolata che senza soluzione di continuità attraversa gli spazi del seicentesco Palazzo San Giuseppe di Polignano a Mare è concepita come un lungo serpente, un intestino o un labirinto, un essere singolo, pantagruelico, con una mente alveolare. Le diverse proposte progettuali condividono un percorso riottoso ad ogni classificazione o definizione finale, sono nodi di una rete che lega in una catena ininterrotta fattori molteplici che resistono a varie prove di forza. Seguendo le tracce del percorso espositivo, esso ci pare ora cosa, ora racconto, ora legame sociale, senza mai ridursi a un semplice ente. Tutto ciò che conta sono la pluralità degli agenti e le reti che li collegano.

Baitball 02 mette in scena una sequenza neurale ininterrotta che può essere vissuta solo come parte di un tutto, solo come un’unica installazione corale che non si pone né come oggetto né come soggetto, ma come relazione. 
Baitball 02 è una singola opera plurale che opera come mediatrice responsabile non di veicolare messaggi, ma di costruire, riscrivere e modificare i significati. 
Baitball 02 non simbolizza, non riflette, non reifica le relazioni, contribuisce a plasmarle.

*Una bait ball si forma quando dei piccoli organismi (pesci, uccelli, insetti) si muovono compatti assumendo una forma sferica che si estende a partire da un centro comune. Si tratta di una misura difensiva adottata per sfuggire alle minacce dei predatori, ma è anche un esercizio di coesione che potenzia le funzioni idro-aerodinamiche degli organismi stessi.
Una bait ball coordinata si sposta luccicante all’unisono, centinaia o migliaia di individui si muovono insieme apparentemente sotto controllo radio o diretti da coreografia prestabilita, anche se al loro interno non esiste alcun leader o gerarchia.

Le “bolle” si formano attraverso quella emergenza spontanea nota come auto-organizzazione che si costituisce procedendo dal basso verso l’alto; un fenomeno a-centrico e non lineare, un processo irreversibile che, grazie all’azione cooperativa di sottosistemi, conduce a strutture più complesse nel sistema globale.

LAVORI DI: Manuel Arturo Abreu, Torre Alain, Artjom Astrov, Mariantonietta Bagliato, Nara Bak, Balfua, Bank of Bad Habits (Johanna Kotlaris & Thomas Moor), Aaron-Amar Bhamra, Karolina Bielawska, Colleen Billing, Hannah Bohnen, Szilvia Bolla, Paul Branca, Emma Bruschi, Sam Buchanan, Clifford E. Bruckmann, Anna Budniewski, Victoria Campbell, Federico Cantale, Mikkel Carlsen, Filippo Cecconi, Ana Chaduneli, Shelby Charlesworth, Urbain Checcaroni, Mengqi Chen, Ivan Cheng, Edoardo Ciaralli, Ciriza, Pierre Clement, Gianluca Concialdi, Julia Colavita,  Nicole Colombo, Daniela Corbascio, Trent Crawford + Stanton Cornish-Ward, Alex de Roeck, José De Sancristobal, Federico Del Vecchio, Rachel Dickson, Derek Di Fabio, Michael Dikta, Anthony Discenza, Dove Perspicacius (Claire Wallois), DUNA GROUP,  Claudia Dyboski, Sessa Englund, Lara Ferrari, Julie Favreau, Ella Rose Flood, Patricia Fort, Javier Fresneda, Noah Furman, Paolo Gabriotti, Manuela Garcia, Alberto Garcia Rodriguez, Tommaso Gatti, Alizée Gazeau, Arthur Golyakov, Santiago Gomez, Hasler R. Gomez, AB Gorham, Noah Greene, Joe Greer, Maëlle Gross, Diego Gualandris, Valentina Guerrero, Rebecca Guez, Mike Hack, Alma Heikkila, Maya Hottarek, Kristin Hough, Annette Hur, Cathrin Jarema, Jason Blue Lake Medicine Eagle Martinez, Gvantsa Jishkariani, Gareth Kaye, Raza Kazmi, Baharen Khoshodee, Michaela Kisling, Stefan Knauf, John Knight, Eliska Konecna, Taka Kono, Susan Kooi, Can Küçük, Madeline Kuzak, Dasha Kuznetsova, Keith Lafuente, Dominik Lang, La Gousse (Cécile Bouffard, Roxanne Maillet, Barbara Quintin), Mandy Lee, Lucia Leuci, Kate Liebman, Aron Lodi, Abby Lloyd, Stas Lobachevskiy, George Henry Longly, Henry MacDiarmid, Taichi Machida, Fiona McElhany, Ana McKay, Maria Maea, Andrea Magnani, Antonis Magoulas, Umber Majeed, Paolo Mentasti, Umber Majeed, Lukas Malte Hoffmann, Daria Makarova, Philip Markert, Anderson Matthew, Josep Maynou, Till Megerle, Qeu Meparishvili, Ally Messer, Mia Middleton, Jimmy Milani, Mario Miron, Giacomo Montanelli, Julie Monot, MRZB, Slava Nesterov, Melissa Newbery-Welcome, Siân Newlove-Drew,  Thuy Tien Nguyen, Valerio Nicolai, Jakup Nilsson, Matthias Odin, Aniara Omann, Catalina Ouyang, Cem Örgen, Paola Paleari, Anna Luisa Petrisko, Cesar Piedra, Austin Pratt, Gianna Virginia Prein, Psychoegyptian & Michael Intile, Andy Ralph, Linus Rauch, Marta Ravasi, Jessy Razafimandimby, Kendy Rivera, Dana Robinson, Mike Sarich, Kira Scerbin, marcus scott williams, Jake Shore, Aleksandra Sidor, Anastasia Sosunova, Manuel Stehli, G. Olmo Stuppia, Kamil Sznajder + Hugo Kaszyki, Filippo Tappi, Alex the Brown, Victoria Todorov, Natasha Tontey, Federico Tosi, Philip Ullrich, Hanna Umin, Valentina Vaccarella, Julian Van Der Moere, Vanya Venmer, Dan Vogt, Karolína Voleská, Xiaowei Wang, Noemi Weber, Graham Wiebe, Tom Wixo, Valerie You, Guanyu Xu, Qianqian Ye, Malte Zander, Alice Zhuang, Julia Znoj e molti altri.

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Galatine, Jaana Kristiina Alakoski, Romana Drdova, Lucia Leuci, installation view

Galatine

Galatine

Jaana Kristiina Alakoski, Romana Drdova, Julie Grosche, Lucia Leuci, Katy McCarthy

A cura di Like A Little Disaster

3 Settembre / 1 Ottobre 2021, @ Berlínskej Model per la mostra internazionale SUMO “The Odd Year II”, Praga, Repubblica Ceca
Con il sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura di Praga e del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale

Like A Little Disaster contributo testo/audio/video per la mostra “Galatine”

Audio registrato nelle grotte di Castellana – Profondita: 3,000 m
Location: Castellana Grotte (BA, Puglia, Italia)
Coordinate: 40°52′32″N 17°08′59″E

Video registrato nella cala di Port’Alga 
Location: Polignano a Mare (BA, Puglia, Italia)
Coordinate: 40.9906408534034, 17.23803019647275

Testo scritto nel giardino di Addolorata e Giovanni
Location: Torre Santa Susanna (BR, Puglia, Italia) – Via Garibaldi, 7
Coordinate: 40.478333065020436, 17.733785258168158

L’etimologia della parola “latte” – “lac-lactis o glactis” in latino e “gala-galactos” in greco – è legata alla più antica radice “GLU, GLA, GAL, GAR” che indica il suono onomatopeico della deglutizione di un neonato durante l’allattamento. Galatina (femminile italiano singolare) Galatine (femminile italiano plurale), è il nome di una famosa caramella al latte italiana. Le galatine sono fatte con latte in polvere e miele. Sembrano cerchi solidi-disidratati-gessosi-biancastri. Sono porosi come tutti i corpi idrici. Ritornano al loro “stato idrico” attraverso la connessione con qualsiasi altro specchio d’acqua, in questo caso la saliva della nostra bocca.1

“Galatine” è concepito come un dialogo tra cinque artiste – Jaana Kristiina Alakoski, Romana Drdova, Julie Grosche, Lucia Leuci, Katy McCarthy – le cui pratiche e poetiche innescano un coro idrofonico che interroga e riflette il concetto di latte, vissuto come metonimie materiali di un maglia acquosa planetaria che permea e collega i corpi e bagna nuovi tipi di vita plurale nell’esistenza. Il latte è comunemente collegato all’esperienza umana e, più in generale, dei mammiferi, alla cura e all’allattamento e al nutrimento primario. Ma il latte è anche qualcosa che va oltre i progetti umani. “Galatine” innesca una prospettiva non umana semplicemente sottolineando le implicazioni extracorporee umane nelle acque corporee degli altri – umane e altri animali, ma anche oceaniche, minerali, ripariali, gassose, epifite, estuari, arboree, tropicali, saline, licheniche, meteorologiche, corpi galattici. Stiamo tutti solo nuotando in ruscelli lattiginosi. Se gli esseri umani adulti riescono a tenere la bocca lontana dal latte, spesso lo sostituiscono con i suoi simulacri, provocando perlopiù danni disastrosi all’ecosistema; latte di cocco, latte di riso, latte di soia, latte di canapa, latte di avena, latte di piselli, latte di arachidi, latte di cereali, latte di orzo, latte di fonio, latte di mais, latte di miglio, latte di avena, latte di riso, latte di segale, latte di sorgo, latte di teff , latte triticale, latte di farro, latte di frumento. Infatti, non solo i mammiferi producono latte; alcuni uccelli, come piccioni, colombe, fenicotteri e pinguini producono una sostanza derivata dalle cellule epiteliali chiamata “latte del raccolto”, con la quale nutrono i loro pulcini. I ragni lo fanno e anche gli scarafaggi, gli pseudoscorpioni, i pesci disco e anche alcune rane e salamandre. Anche le piante emettono latte. Vengono secreti lattici e resine lattiginose sia per difesa, sia per cura e guarigione; cos’è un nuovo ramo se non un bambino di cui prendersi cura? Attraverso la guttazione alcune piante secernono piccole gocce lattiginose e viscose che garantiscono nutrimento e idratazione alle piante più piccole sottostanti. Le pietre sono fatte di calcio, molte varietà di fossili producono fluidi lattiginosi. Sì, le pietre producono latte ma, a sua volta, il latte produce pietre. Inoltre, la caseina si trova in una varietà di oggetti che usiamo tutti i giorni (incluso materiale tecnologico); ma capita di essere mescolato con plastiche tossiche e derivati. Siamo circondati dal latte, è in noi, con noi, sopra di noi, sotto di noi, intorno a noi. Troppo vicini, troppo lontani, dalle molecole invisibili alla “nostra” galassia splendente che è due volte lattiginosa, perché è la Via Lattea e perché è la Galassia. Quando i bambini chiedono alle loro madri il latte, in realtà chiedono “l’intera” Galassia. Del resto, non è vero che la Via Lattea è stata creata dal seno di Era?

Le pietre sono porose, come tutti i corpi idrici; come tutti i corpi bagnati, i fossili sono porosi, anche i corpi delle donne, dei pesci, dei neonati, dei fenicotteri, del Tagikistan, dell’alocasia, dei ragni, dei fichi, dei pozzi artesiani e della galatina sono porosi. Questi corpi sono tutti presi l’uno dalle correnti dell’altro, come lo sono con il corpo della balena, il corpo della nuvola di pioggia e il corpo del mare sempre più tossico. In quanto specchi d’acqua, siamo tutti e sempre, a un certo punto dei livelli, coinvolti. Se “Galatine” è iniziato con l’obiettivo di “descrivere la geografia più vicina”, ha presto percorso una grande distanza senza mai lasciare veramente questo corpo che è “nostro”. Ha anche remato nel tempo; il latte ci collega direttamente all’infanzia, ma anche ad altri corpi attraverso il tempo e lo spazio, dove l’intreccio dei corpi potrebbe suscitare “l’odore ricordato del latte di nostra madre”. Come vettore acquoso tra i corpi, il latte raccoglie le eredità della miriade di corpi porosi che sono la condizione della nostra perenne condizione idromorfica. Ci consegniamo tutti a un altro corpo bagnato. Diventiamo tutti con, o semplicemente diventiamo, altri mari lattiginosi. Mentre i lineamenti che formano il soggetto materializzano il corpo in modo molto concreto, ne indicano anche le molteplici appartenenze e ancorano la loro soggettività in più luoghi.

Il corpo è sempre multiplo.

Ebbene sì, anche questo corpo è situato come corpo materno. “Galatine” ritrae l’atto di allattare come un vettore di affetto potente e talvolta inquietante: “l’atto di allattare un bambino, come un atto sessuale, può essere teso, fisicamente doloroso, carico di sentimenti culturali di inadeguatezza e colpa; oppure, come un atto sessuale, può essere un’esperienza fisicamente deliziosa, essenzialmente calmante”.2

 

“Galatine” descrive il transito delle acque tra i corpi come un dato di fatto, ma anche come una questione di sentimento, di memoria, di incarnazione sessuata e sessuale. Potremmo provare a separare i flussi biologici “reali” dell’intercorporeità lattiginosa (DDT, anticorpi, ritardanti di fiamma, calcio) da quelli affettivi (legame, amore, repulsione, paura), ma tali divisioni qui vacillano. In “Galatine” psiche e soma, biologia e affetto, dimorano nei e come i nostri corpi in quello che può essere visto come uno spazio immersivo per una fusione di gameti intrecciati, dove fazioni corporee apparentemente disparate stanno comunque comunicando tra loro in una narrazione empatica.

1. Ricorda: la saliva e il latte sono sempre risorse fondamentali per “sputare su Hegel ancora e ancora”
2. Adrienne Rich, Della donna nata: la maternità come esperienza e istituzione, 1976

Nei locali di Berlinskej Model, Like A Little Disaster ha presentato le opere di cinque artisti provenienti da diversi angoli del mondo: Romana Drdová (CZ), Julie Grosche (FR), Lucia Leuci (IT), Jaana-Kristiina Alakoski (SE), e Katy McCarthy (Stati Uniti). Il tema della mostra è la femminilità, con la maternità e la cooperazione fraterna come filo conduttore. I suddetti artisti allestiranno una mostra di pittura, scultura, fotografia e video in armonia e collaborazione reciproca; opere e corpi e pensieri coesisteranno empaticamente tra loro.

SUMO Prague 2021 è un progetto internazionale di scambio di gallerie, la cui seconda edizione, intitolata The Odd Year II, si svolgerà a Praga, nella Repubblica Ceca, dal 3 settembre al 15 ottobre 2021. Otto gallerie locali ospiteranno mostre accompagnate programma curato in collaborazione con istituzioni partner dall’estero. Il progetto mira a presentare al pubblico locale arte internazionale e artisti nuovi nel contesto ceco. SUMO aiuterà anche a promuovere la cooperazione internazionale nel campo dell’arte contemporanea, stabilendo nuove reti e promuovendo lo scambio tra artisti, curatori, critici d’arte e altri professionisti del mondo dell’arte. Il weekend di apertura di SUMO si svolgerà dal 3 al 5 settembre 2021.

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Body Snatchers (The House), Installation View.

Body snatchers (The House)

Body snatchers (The House)

Jaana-Kristiina Alakoski, Benni Bosetto, Reilly Davidson, Giulia Essyad, Adham Faramawy, Cleo Fariselli, Chiara Fumai, Jason Gomez, Ellie Hunter, Uffe Isolotto, Gregory Kalliche, Lito Kattou, Lucia Leuci, Aniara Omann, Catherine Parsonage, REPLICA, Giuliana Rosso, Namsal Siedlecki, Oda Iselin Sønderland, Federico Tosi, Bruno Zhu

A cura di Like A Little Disaster e PANE Project

10 Maggio / 30 Giugno 2019 @Foothold, Polignano a Mare

L’accesso in galleria sarà consentito ad una sola persona per volta. La mostra sarà fruibile esclusivamente in totale isolamento, la galleria non avrà personale e non sarà permessa alcuna interazione fisica umana. L’esperienza della mostra si trasforma così da evento sociale e mondano a dimensione privata in cui visione diventa uno spazio per l’autoriflessione.

Mostruoso, abnorme, deforme, ibrido, soprannaturale; segno inviato dagli dèi, presagio – secondo l’etimologia greca (τέρας); ammonimento (mŏnēre) e mostrazione (monstrāre) della condotta da seguire, nell’accezione latina (monstrum), ma anche prodigio, fatto eccezionale che si dà e, in certo senso, si impone in quanto eccezione, costringendo a una messa in questione di ciò che costituisce, per converso, l’ordinario.

Nella tarda antichità e in epoca medievale, la mostruosità diviene, da prodigio, un problema di storia naturale, evolvendosi nel senso del fantastico e giungendo fino alla prospettiva fantascientifica e horror della contemporaneità, che delinea l’esistenza di forme di vita aliene e cyborg. La storia del termine “mostro” e della costellazione di significati che da esso si ramifica attraverso il susseguirsi di epoche storiche fino a giungere a quella attuale in cui, recepita la connotazione morale, si assiste anche alla mostrificazione di oggetti, individui, gruppi, eventi. Il concetto di diversità assume generalmente una valenza autosanzionatoria; corpi diversi dalla norma(lità), che deviando da standard impossibili, strutturano modalità alternative del darsi della corporeità, divengono per ciò stesso infrazione. Il divieto si radicalizza nella sua pervasività valicando i confini dell’antinomia inerente al corpo normale e al corpo anormale, mostruoso, grottesco, investendo nella loro interezza la corporeità e la fisicità in un mondo e in un’epoca – quelli attuali – in cui un microrganismo invisibile, parassitico, diviene minaccia per la sopravvivenza degli esseri umani e impone l’illegalità di qualsivoglia forma di interazione corporea, radicalizzando la misura dello spazio personale e facendo della sua contaminazione un pretesto ineludibile di sanzione.

Body snatchers (The House) è un progetto iper-privato, forse puramente speculativo e fenomenologico, che conduce il visitatore all’interno di una bolla contemporaneamente familiare e aliena. All’interno di uno scenario parallelamente pre e post umano, il visitatore si ritrova circondato da numerose presenze corporee presumibilmente umane (ma nessuno può dirlo con certezza, nessuno può confermarlo – se non c’è nessun altro a cui poter chiedere). Un affastellarsi di corpi, di loro rappresentazioni, di performatività, trasformazioni, frammentazioni e, naturalmente, anche della loro assenza. Sono corpi troppo inventati, smembrati e deformati per essere umani? Frammenti troppo allusivi per essere soltanto pelle e carne? Il visitatore sarà costretto a specchiarsi nel non corpo degli altri, nella traccia residuale di corpi che fuoriescono dai loro confini, distorti, smembrati e multi-arto, come forme o materiali esistenti, ma migliorati, come un sé collettivo smontato e ricomposto. L’imposizione della pars destruens si compenetra in una ristrutturazione del senso che, dal canto proprio, impone la propria urgenza. Non è ammesso distogliere lo sguardo; non è ammesso voltarsi da un’altra parte: l’opposto presenta i medesimi caratteri e la medesima urgenza. L’eventualità dello stare nel disagio non ammette deroghe poiché, forse, non sono i corpi in mostra a essere mostruosi o in trasformazione, ma piuttosto il corpo del visitatore medesimo. Più ci si vieta di pensare gli ibridi, più l’incrocio diventa possibile.

Quando i corpi fuoriescono dai loro confini, o quando parti di essi vengono separate dal tutto, diventano qualcosa d’altro in modo inquietante. Ciò costringe lo spettatore a rinegoziare i confini tra interno ed esterno, tra i corpi stessi, frammentati, “snaturati” e la fonte delle proprie inquietudini e paure. Il perturbante si presenta, così, nella sua doppiezza, come ciò che, pur essendo ignoto, possibilmente inconoscibile, inintelligibile e pertanto esiziale, rappresenta allo stesso tempo un che di familiare. La linea di confine tra natura e contronatura si palesa nella sua labilità e indistinzione, dando luogo a un effetto di disorientamento nella lettura e nell’interpretazione di ciò che ci viene offerto dalla percezione, che si configura come un senso di disagio verso un corpo che, a livello cognitivo, non è possibile discernere immediatamente come vivo o morto, reale o fantasmatico, un corpo tridimensionale e antropomorfo che confonde, cioè, le certezze di categorizzazione del reale e mescola ambiguamente le nozioni, esperite necessariamente come binarie – oppositive – di vita e di morte.

Body Snatchers (The House) – da intendersi come un’unica opera/esperienza collettiva – schiera speculazioni sulla realtà e sulla finzione, sulla soggettivazione ma anche sull’intersoggettività, la gerarchia e il divenire, l’incontro con l’alterità, la relazione (interazione) tra differenti componenti/materie/realtà e la negoziazione tra privato e collettivo, l’Io e il Noi, l’Io e l’altro (e, se ancora esiste, l’altro-corpo). Come nell’omonimo film di Abel Ferrara[1], nella mostra sarà difficile affermare cosa sia reale: tu o loro – il tuo corpo o il loro (e ancora, noi o loro – il nostro corpo o il loro)? Il corpo umano abbraccia e accoglie in sé il non umano, l’alterità, dandogli quartiere e determinando una presenza/assenza di corpi in divenire, in evoluzione o in stato di reazione a qualcosa di nuovo e inaspettato, dando luogo, così, a una metamorfosi.

La corporeità è pensata a partire dalla relazione tra corporeo e organico, dove l’organismo è sia componente vitale sia struttura, organizzazione normale e normatrice[2]. L’estetica radicata negli stati di cambiamento e ibridazione, di transizione permanente, implica un ripensamento di tali aporie nell’ottica di una presa di coscienza dell’arbitrarietà della pretesa della purezza, dell’aderenza alle regole di natura volta all’estromissione e alla condanna della diversità, del non con-forme, dell’anormalità tacciata di anomalia[3].

Secondo la teoria della Gestalt, le modalità attraverso cui la percezione visiva opera procedono a partire da una sorta di sguardo d’insieme che consente di cogliere l’interezza di ciò che viene percepito. In seconda istanza, l’approccio iniziale, di tipo olistico, si modifica verso una comprensione analitica del dato percepito, operando una sorta di scanning dei singoli elementi che lo compongono. Poiché «è vero che il mondo è ciò che noi vediamo, ed è altresì vero che nondimeno dobbiamo imparare a vederlo»[4], occorre declinare in senso prospettico il nostro sguardo su ciò che ci circonda, apprendere a relativizzare, sospendere il giudizio e, contestualmente, affinare il senso critico. Il sonno della ragione genera mostri, allo stesso modo in cui il torpore dell’emotività genera disumanità.

Parti del corpo e tagli di carne non sempre identificabili costringono lo spettatore a un incontro viscerale con oggetti familiari, ma anche alieni. Un cadavere umano non è di per sé abietto, ma l’incontro con esso può certamente generare aberrazione. Ma anche attrazione. Una ricalibrazione della propria relazione con l’oggetto coinvolge il corpo mentre cerca di valutare se l’oggetto estraneo è una fonte di minaccia o fascinazione, forse entrambe, elementi coappartenenti di una zuppa tossica che ingenera seduzione e interesse carnale al disgusto, fantasie distopiche di voyeurismo e violenza, allusioni viscerali e scultoree, narrazioni immaginate di invasioni corporee; il grottesco dilagante, con corpi elastici, deformi o mostruosi. La possibilità di metamorfizzare la propria carne e la propria immagine – di permearne le soglie – è sia intossicante che ansiogeno.

Body snatchers è una creatura di confine che vaga tra i margini di tutto ciò che è familiare e convenzionale. È desiderosa di trasformazione, una bocca aperta che invita alla discesa in altri mondi in uno spazio per accumulare nuove idee ed enigmi etici. Un terreno maturo per l’attecchimento di perversioni che spingono i confini destituendone i limiti di ogni legittimità, sdoganando narrazioni che si pre-occupano di infezione e stati alterati. La vita è un cambiamento costante; stiamo mangiando il mondo, il mondo mangia noi. Siamo tutti mortali. Siamo tutti umani. Siamo tutti carne. Non possiamo sfuggire alle nostre inclinazioni né tantomeno alla nostra carne e al nostro sangue, alla loro decadenza e putrefazione. La prossima generazione potrà anche evolversi in cyborg schizzinosi, ma restando ancora sangue, viscere ed escrementi… contagiosi e virulenti…

Merda e luce.   Like A Little Disaster & Giusi Aglieri
[1] Ultracorpi L’invasione continua (Body Snatchers), film del 1993, presentato in concorso al 46º Festival di Cannes, costituisce uno degli adattamenti cinematografici del romanzo L’invasione degli ultracorpi (The Body Snatchers, 1955) di Jack Finney; del 1956 è, invece, la versione del regista Don Siegel, dal titolo L’invasione degli Ultracorpi e del 1978 quella di Philip Kaufman, Terrore dallo spazio profondo. Del 2007 è, infine, Invasion, di Oliver Hirschbiegel.
[2] Cfr. S.K. Langer, La forma vivente, in Ead., Problemi dell’arte. Dieci conferenze filosofiche, trad. di M. Attardo Magrini, Il Saggiatore, Milano 1962, pp. 51 e sgg.
[3] Il concetto di ibridazione rinvia alla coappartenenza della corporeità e del grottesco, invalidando la delimitazione arbitraria e limitante dei confini e degli standard stabiliti per la corporeità stessa. Come scrive, infatti, Bachtin: «tra le cose belle di questo mondo terreno sono stabiliti e fissati dalla tradizione e consacrati dalla religione e dall’ideologia ufficiale legami falsi, che deformano l’autentica natura delle cose. Le cose e le idee sono unite da falsi rapporti gerarchici, ostili alla loro natura. Esse sono disgiunte e separate tra loro da ogni sorta di strati ideali ultraterreni, che non permettono alle cose di stare in contatto nella loro viva corporeità. Il pensiero scolastico, la menzognera casistica teologica e giuridica e, infine, lo stesso linguaggio, impregnato di secolare e millenaria menzogna, cristallizzano questi ipocriti legami tra le belle parole tangibili e le idee realmente umane. È necessario distruggere e ricostruire tutto questo falso quadro del mondo, spezzare tutti i falsi legami gerarchici tra le cose e le idee, distruggere tutti gli strati ideali divisori tra di loro. È necessario liberare tutte le cose, permettere loro di entrare in libere unioni, proprie della loro natura, per quanto bizzarre queste unioni sembrino dal punto di vista dei legami tradizionali consueti. È necessario dare alle cose la possibilità di stare in contatto nella loro viva corporeità e nella loro varietà qualitativa. È necessario creare tra le cose e le idee nuovi vicinati che rispondano alla loro effettiva natura, porre accanto e unire ciò che è stato fallacemente diviso e allontanato e disgiungere ciò che è stato fallacemente avvicinato» (M. Bachtin, Estetica e romanzo, a cura di C. Strada Janovič, Einaudi, Torino 19792, pp. 315-316). Forse, dei «nuovi vicinati» di cui parla Bachtin potrebbe trovarsi traccia nelle grottesche risalenti al I secolo a.C., realizzate nell’ambito della pittura romana come decorazione parietale e poi riprese a partire dal Quattrocento, raffiguranti esseri ibridi, figure mostruose che fondono insieme tratti antropomorfi, componenti naturali ed elementi architettonici.
[4] M. Merleau-Ponty, Le visible et l’invisible, trad. it. di A. Bonomi, Il visibile e l’invisibile, testo stabilito da C. Lefort, nuova ed. it. a cura di M. Carbone, Bompiani, Milano 20034, p. 32 – il corsivo è nel testo.
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Petra Cortright, vvebkam, 2007

Body snatchers (The Church)

Body snatchers (The Church)

Ed Atkins, Petra Cortright, Julie Grosche, Oliver Laric, Heather Phillipson, Laure Prouvost, Bárbara Wagner & Benjamin de Burca, Jala Wahid

A cura di Like A Little Disaster and PANE Project

12 Aprile / 20 Giugno 2021 @Chiesa di San Giuseppe, Polignano a Mare, Italia

Like A Little Disaster e PANE project sono felici di presentare Body Snatchers (The Church), un nuovo capitolo dell’indagine intorno ai linguaggi della videoarte internazionale nella sede della settecentesca Chiesa di San Giuseppe a Polignano a Mare.

L’accesso in chiesa sarà consentito a una sola persona per volta. La mostra sarà fruibile esclusivamente in totale isolamento, la chiesa non avrà personale e non sarà permessa alcuna interazione fisica umana. L’esperienza della mostra si trasforma così da evento sociale e mondano a dimensione privata in cui la visione diventa lo spazio per l’autoriflessione.

La proiezione di ogni singolo video seguirà una playlist casuale osservando l’ordine dalle Ore Canoniche della Chiesa cattolica; le ore dedicate alla preghiera comune e collettiva.

 

Liturgia Horarum
Ufficio delle letture (Prima dell’alba)
Lodi (All’alba)
Prima (Alle 6.00)
Terza (Alle 9.00)
Sesta (Alle 12.00)
Nona (Alle 15.00)
Vespri (Al tramonto)
Completa (Prima di coricarsi)

 

– – –

 

 

Il nascondiglio era il mio tempio,
la porta incatenata il mio altare
e là mi sdraiavo a pensare strani pensieri
e sognare strani sogni.

 

I video si attivano come apparizioni o visioni, come affreschi che prendono vita sulle pareti della chiesa, come candele accese al santo o come preghiere ascoltate. Le proiezioni funzionano come grandi specchi attraverso i quali il visitatore può confrontarsi e auto-riflettersi (come paragone, in assenza di altre presenze umane).

 

Body Snatchers (The Church) avviene in un tempo in cui vigono le regole dell’isolamento e del distanziamento fisico, un tempo radicalmente autoriflessivo e in cui il corpo non deve necessariamente performare, esibirsi o manifestarsi materialmente all’altro – se non attraverso o all’interno di una condizione immateriale. Il progetto acquista così un significato extra data l’attuale situazione di distanziamento sociale ed espansiva comunicazione digitale. Man mano che cresce il desiderio di contatto fisico con tutto ciò che è rimasto fuori, escluso dalla nostra bolla intima, il confronto con immagini piatte diventa sempre più doloroso.
Non ci resta che accarezzare lo schermo e accettare il valore dell’essere immateriale.

 

Il progetto è ambientato all’interno di uno spazio destinato ad ospitare l’assemblea liturgica, una navata che comunemente accoglie persone che credono alla reale esistenza del corpo e del sangue di Cristo, ma che ora accoglie un corpo obbligato a credere che gli altri, la loro corporeità e la loro presenza fisica esistono ancora. La chiesa è anche il luogo in cui i fedeli credono che il corpo (l’incarnazione del Divino) sia resuscitato e ritornato in vita dopo la morte; un luogo di vita e morte, di passaggio tra le due e del loro reciproco interscambio.

 

Nei Vangeli tomba vuota e resurrezione si identificano. Le donne e gli apostoli non vedono mai la resurrezione come rianimazione del corpo morto. Vedono solo l’assenza del corpo e le apparizioni in forma nuova e misteriosa, apparizioni variamente interpretabili. E’ l’assenza, è il vuoto, la sostanza della resurrezione.

 

Il corpo trasognato, atteso, sfuggito e intoccabile si fa l’immagine di una riproduzione che risponde alla dettatura del desiderio. Il corpo perduto è realmente assente, la solitudine diventa lo spazio della sua presenza astratta. E allora l’astrazione stessa non è forse altro che assenza e dolore o dolore dell’assenza?

Il desiderio del corpo perduto può essere definito come una congenita vocazione mistica all’utopia, e al sogno. L’attesa non conosce strumenti più efficaci dell’immaginazione per sanare, seppur in modo ingannevole ed effimero, l’assenza della persona desiderata. L’attesa dell’altro mette in moto un atto di manipolazione dell’oggetto del desiderio, dandogli un corpo, un volto, un carattere, delle intenzioni, delle parole, che non corrispondono quasi mai alla realtà. Lo stesso oggetto dell’attesa, centro di massa di tale dinamica, può rivelarsi, in realtà, nient’altro che un oggetto immaginato: chi è mai questo corpo se non il prodotto dell’immaginazione? Non è un corpo irreale, evanescente, quello che effettivamente si aspetta? Il corpo atteso è dotato di una sua propria oggettività o la sua immagine è legata, per sua stessa natura, alla soggettività di chi la pensa?

 

All’interno di un luogo che nella sua definizione etimologica indica lo spazio dedicato alla collettività, alla riunione dei fedeli e all’assemblea, Body snatchers (The Church) specula sulla dimensione dell’isolamento, della trasformazione, del passaggio, dell’attraversamento dei confini fisici, della presenza e dell’assenza, così come sulla nostalgia, la solitudine, il dolore e la paura.

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Hannah Black, Aeter (Jack), 2018 – Installation view.

The eye can see things the arm cannot reach

The eye can see things the arm cannot reach

Farah Al Qasimi, The Army of Love (Alexa Karolinski & Ingo Nierman), Meriem Bennani, Hannah Black, Kate Cooper, Emma Balimaka & Adrien Cruellas & Florian Sumi, Cécile B. Evans, Adham Faramawy, FCNN, Dorota Gawęda and Egle Kulbokaite, Alex Goss, Julie Grosche, Ilana Harris-Babou, The Institute of Queer Ecology, Derek G Larson, Hanne Lippard, Jen Liu, Katy McCarthy, Orla McHardy, Shala Miller, Virginia Lee Montgomery, Shana Moulton, Sondra Perry, Agnieszka Polska, Tabita Rezaire, SAGG Napoli, Stephen Vitiello.

A cura di Julie Grosce e Like A Little Disaster

12 Settembre / 12 Dicembre 2020
@ONSITE Chiesa di San Giuseppe – Polignano a Mare Italy
@ONLINE www.sajetta.com

I peccatori saranno perdonati. I corrotti no […]. Apritevi all’amore. I

 

Originariamente questo progetto era stato pensato per la Chiesa di San Giuseppe di Polignano a Mare, ma con la pandemia e le norme relative al distanziamento sociale, le cose sono cambiate. Il progetto ha subìto un processo di sdoppiamento (IRL/online) che lo ha portato a trasformarsi in un’erma bifronte, che ama un volto che non può toccare.
“The eye can see things the arm cannot reach” è realmente allestita nella chiesa ma l’accesso al pubblico non sarà mai consentito. Sarà possibile visitarla la solo attraverso la piattaforma online sajetta.com – ed è così che la mostra esiste simultaneamente online e nella chiesa dove nessuno può sperimentarla, se non attraverso un atto di fede.

 

Dubitare è lecito. Il dubbio è nel gioco della fede. È nel gioco dell’amore.
Ma nessuno è qui per verificare.

 

Le opere in mostra ruotano attorno all’amore (non come soggetto ma come esperienza), alle emozioni, all’intimità, al concepimento, all’empatia, al romanticismo così come allo sguardo e al corpo femminile. La chiesa diventa la cornice blasfema per la proiezione di opere che mettono in scena rappresentazioni di amore e sensualità.
L’oggetto della fede e del credo diventano qui semplicemente l’amore.
“The eye can see things the arm cannot reach” è un progetto ultra-privato, forse puramente speculativo, che ci conduce nella dimensione intima della fede. Fede in qualcosa che sta sicuramente accadendo, ma che nessuno può sperimentare, assistere o provare, perché la dimostrazione è la sua stessa negazione. Fede che i corpi e l’amore non siano solo un’illusione; anche durante una pandemia.

 

Amore è figlio di Penia; la povertà, il bisogno, la mancanza, l’assenza.

 

Tutte le opere coinvolte invocano ed esibiscono l’amore verso l’Altro (amanti/amici/figli/comunità/compagni/sorelle) ma visualizzate in un modo e in un tempo in cui ogni interazione fisica è negata. Il progetto è ambientato all’interno della navata di una chiesa che in genere accoglie persone che credono che il corpo di Cristo sia realmente esistito, ma che ora accoglie noi, nel vortice di momento storico che ci permette unicamente di credere che l’altro, la sua corporeità, la sua presenza fisica, esistano ancora.
Le interazioni sono ora fantasticate e il desiderio è al suo apogeo.
Il corpo trasognato, atteso, sfuggito, si fa l’immagine di una riproduzione rispondente alla dettatura del desiderio. Il corpo perduto è realmente assente, la solitudine diventa lo spazio della sua presenza astratta. L’astrazione stessa allora non è altro che assenza e dolore, dolore dell’assenza – forse dunque amore.
Ogni attesa d’amore può essere definita come un’innata vocazione mistica all’immaginazione, alla fantasticheria. L’innamorato che attende non conosce strumenti più efficaci dell’immaginazione per sanare, seppur in modo ingannevole ed effimero, l’assenza della persona amata. Durante l’attesa, l’innamorato “manipola” l’oggetto del suo amore, dandogli un corpo, un volto, un carattere, delle intenzioni, delle parole, che non corrispondono mai alla realtà. Lo stesso oggetto dell’attesa, centro di massa della dinamica amorosa, può rivelarsi, in realtà, nient’altro che un oggetto immaginato: chi è mai questo corpo per me se non il prodotto della mia immaginazione? Non è un corpo irreale, evanescente, quello che sto effettivamente aspettando? Il corpo atteso sembra non essere dotato di una propria oggettività. La sua immagine è legata, per sua stessa natura, alla soggettività di chi la pensa?

 

Corpus Domini II

 

Un importante aspetto che emerge dai processi messi in moto dall’alternarsi delle opere è rintracciabile nell’idea/immagine/rappresentazione del corpo e la sua proprietà.
La quarantena ha rappresentato un momento intensamente autoriflessivo, un non tempo in cui il corpo non ha dovuto esibirsi, di conseguenza rappresenta anche la dimensione del distanziamento, del distacco, non solo dagli altri ma soprattutto dai costrutti sociali.
L’amore è lo spazio esclusivo dell’intimità, scisso dalla società e dai ruoli che ci impone; esso diventa un assoluto (solutus ab ? absolútus), sciolto da tutto, in cui ciascuno può liberare il sé che non può esprimere nei ruoli che occupa nell’ambito sociale.

 

Ore Canoniche III– dell’amore.

 

I video appariranno come visioni in momenti casuali e imprevedibili della giornata (H24 – 7/7). Una modalità, questa, che rende impossibile la piena visione dei contenuti, allo stesso modo in cui non potranno essere visti nella chiesa. In questo modo il progetto, da intendersi come un’opera collettiva, reclama la sua natura indefinibile e inafferrabile nella sua totalità, come l’amore.
Fede, amore, religione, tutti oggetti che non possiamo comprendere pienamente, saranno trattati per ciò che sono; fading, impalpabilità, evanescenze, all’interno del display online.
Tra una proiezione e l’altra una colonna sonora, composta per l’occasione da Stephen Vitiello (con testi – da Diderot – recitati da Tracy Leipold e Julie Grosche), accompagnerà e guiderà il visitatore in quella dimensione in cui l’attesa è il tempo stesso della mancanza. La colonna sonora è un elemento fondamentale dell’intero progetto: così come la chiesa, essa rappresenta ciò che contiene e collega i vari video. La colonna sonora diventa lo spazio, lo spazio della presenza assente.

 

Ma l’altro è assente; lo convoco dentro di me affinché mi trattenga sul margine di questa compiacenza mondana, che mi spia. Faccio appello alla sua “verità” (la verità di cui egli mi dà la sensazione) per contrapporla all’isteria di seduzione in cui mi sento scivolare. Io rendo l’assenza dell’altro responsabile della mia mondanità: “invoco” la sua protezione, il suo ritorno: voglio che l’altro compaia, che, come una madre che viene a prendere il suo bambino, mi allontani dalla briosità mondana, dall’infatuazione sociale, che mi dia nuovamente “l’intimità religiosa, la gravità” del mondo amoroso. IV

I Papa Francesco, dalla messa per i parlamentari del 28 marzo 2014
II La Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo (Sollemnitas Ss.mi Corporis et Sanguinis Christi), o, nella forma straordinaria del rito romano, Festum Ss.mi Corporis Christi, comunemente nota con le espressioni latine Corpus Domini (“Corpo del Signore”) o Corpus Christi (“Corpo di Cristo”), è una delle principali solennità dell’anno liturgico della Chiesa cattolica.
III Le ore canoniche sono un’antica suddivisione della giornata sviluppata nella Chiesa cattolica per la preghiera in comune, detta anche “Ufficio divino”.
IV Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso.
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